“L’OSSERVATORE SPIATO” RIVISTA OCCASIONALE IN RETE
«C’era questa cosa della supremazia intellettuale – cosa che a me, già soltanto per una questione di antagonismo mi ha sempre dato sui nervi (figuriamoci poi se avessi dovuto spiegare davanti a una commissione di letterati che questa cosa, così come ora la sto raccontando a te, mi era venuta in mente perché volevo iniziare un racconto ispirandomi a “La Cattedrale”, di Carver… come minimo mi avrebbero riso in faccia) – ad ogni modo era questo che mi ero prefissato di dover dire e di questo avrei dovuto parlare quel giorno a Laura, per far sì che spingesse sull’introduzione.».
Così esordì Giuseppe Verdi nell’elencare al sottoscritto l’idea, ma soprattutto ciò che lui considerava come incipit, del suo ambito progetto. Inutile dire che Giuseppe Verdi è un nome che potrebbe essere sia vero che falso, o meglio, inutile dirlo perché tutti sanno a chi appartiene, comunque sia nella fattispecie lui era (forse perché all’epoca di quell’incontro era già riuscito anche finalmente a fare altro) un giovane disoccupato. Ci tengo a sottolinearlo in modo particolare, che era un disoccupato, per una serie di ragioni che in Italia non occorre certo ricordare e che potrebbero essere equiparate alla stregua di quelle che sono soliti avere tutti quelli che svolgono un vero e proprio lavoro, come se sia loro, che ogni disoccupato che si rispetti in questo Paese, sapessero che la criminalità organizzata, le infiltrazioni mafiose che operano all’interno delle Istituzioni e quell’attitudine congenita nel turlupinare il prossimo (insita nella maggior parte degli Italiani) c’entrino proprio un bel niente in queste ragioni. Mi sembra talmente scontato dirlo che i tre puntini di sospensione che si usano per fare immaginare al Lettore il prosieguo di un racconto è come se si fossero messi da soli. Per uno come il Verdi dunque la sola cosa che ancora contava era di riuscire a sbarcare il lunario, che in fondo con il passare degli anni è diventata la più comune forma di utopia contemporanea. Ma veniamo al racconto. Quattro anni fa, circa – mi ricordo soltanto che era Marzo proprio perché in Italia, a inizio Marzo del 2020, poco prima che chiudessero tutto, la percezione che il mondo era cambiato venne a chiunque, o quasi – al Verdi venne in mente di scrivere un libro aperto, in cui tutti avrebbero potuto scrivere qualcosa continuando la narrazione anche dopo la sua morte. Questo libro avrebbe dovuto parlare esclusivamente di sogni raccontati non appena il ricordo fosse emerso dai meandri della psiche. Non erano ammesse né versioni romanzate dei sogni stessi, né visioni distopiche o escatologiche, né tanto meno patetiche biografie oniriche, soltanto la descrizione ricorrente di ciò che si riusciva a vedere quando si era immersi nel sonno più profondo, in modo tale da rendere non più interpretabile qualsiasi altra narrazione. Era molto orgoglioso del suo (a suo modo di dire) ambito progetto – tanto da non farne parola con nessuno, anzi, con il passare del tempo probabilmente in lui si stava consolidando la convinzione che meno persone incontrava e meglio si sentiva in quanto poteva donare tutto se stesso alla creazione di quel libro senza essere costretto a venir meno a quell’assurdo principio di non voler subire alcun condizionamento che provenisse da una qualsiasi interazione umana, eccetto appunto Laura – almeno, questo era sembrato a me quando lo incontrai quell’unica volta in un caffè del centro. A proposito, io mi chiamo Andrea Boniscontri e sono un editore. Non so ancora per quanto, considerati i tempi in cui viviamo oggi, ad ogni modo non mi era mai successo di rivalutare l’opera di qualcuno che a malapena si sforzava di parlare con qualcun altro, ma che al contempo parlasse di qualcosa che a tutti i costi doveva fare nella vita come se gli altri, non lui, dovessero ambire a quel progetto. Quando gli chiesi perché, invece di “ambizioso” si ostinava a ribadire ambito, mi rispose che siccome di ambizioni non ne aveva e che nemmeno voleva sentirne parlare visto che a lui bastava rivoluzionare il mondo delle telecomunicazioni, erano gli altri che avrebbero dovuto interessarsi a lui. Lo conobbi a teatro, una sera in cui andò in scena il Don Chisciotte, rappresentato per altro in modo magistrale da un noto attore che interpretava la parte sia dell’allampanato cavaliere mancego che del suo fidato scudiero. Eravamo entrambi seduti in un loggione la cui capienza era limitata a quattro posti numerati, di cui uno era vacante e l’altro occupato da mia moglie. Non appena si rese conto – forse nemmeno l’aveva letta, la locandina – che l’intera rappresentazione era affidata all’unico attore in scena, si alzò di scatto sbuffando, urtandomi. Quindi, dopo le debite scuse, iniziò a parlare in tono enfatico del capolavoro di Cervantes, con affabulazione, sembrava quasi fosse lo stesso autore – attraverso chissà quali vie – a suggerirgli le parole di quel racconto. In sintesi finimmo con il trascorrere la serata insieme, ma senza mia moglie, che l’indomani avrebbe dovuto fare una delle sue solite levatacce. Entrambi rispettosi riguardo la scelta di non rivelare al primo incontro ciò che inevitabilmente la curiosità impone di conoscere – ovvero la professione, a prescindere dall’autenticità della stessa o dal ruolo ricoperto nel sociale – ci perdemmo vicendevolmente nell’evocare le avventure (o disavventure, dipende dai punti di vista) del Chisciotte, convenendo sulla sua visione utopistica e al contempo sull’aspetto paradossalmente più immortale del suo essere: vale a dire la sua umanità. Per lui, per l’allora disoccupato Verdi, beninteso, essendo inesauribili gli spunti di riflessione contenuti nel Chisciotte avrebbero dovuto essere inculcati nella memoria collettiva a suon di LAC (acronimo di Literary App Compulsory, ovvero un’applicazione digitale che avrebbe costretto l’utente a memorizzare determinati capolavori letterari) da un’associazione di consumatori anonimi, cercando così di contrastare in qualche modo l’imperante e inevitabile dominio delle intelligenze artificiali (un domino mirato a rivalutare i fatti, oltre che le interpretazioni, che alla fine della fiera non avrebbe fatto altro che renderli entrambi dei meri assiomi, a detta sua). Cosa questa che ovviamente strideva con la mia visione editoriale per una serie di comprensibili ragioni – che spaziavano dalla mancanza di pluralismo all’assurdità di quella tanto ipotetica quanto surreale imposizione, ma che, al termine di quell’unico confronto mi illuminò sulla natura in gran parte nichilista del mio interlocutore. Argomentando a proposito del racconto dell’Elmo di Mambrino (contenuto nel Chisciotte ) e sull’evidente contemporaneità che quel racconto ancora oggi è in grado di suscitare – mentre io cominciai a decantare come quelle parole scritte più di 400 anni fa potessero risultare attuali, si pensi per esempio alla pubblicità e alla sua pratica, spesso distorta, cui viene quotidianamente propinata – sulle prime lui si mostrò scettico a proposito dell’interpretazione, quasi fosse costretto da chissà quale entità a recitare la parte di un attore che deve interpretare un vecchio bacucco afflitto da un “morbo” di contraddizione istantanea: «se quel racconto potessi farlo leggere a tutti, credi davvero che la maggioranza capirebbe la differenza tra quello che vede Sancho Panza (la bacinella del barbiere) e quello che vede Don Chisciotte (l’Elmo di Mambrino)? Oppure pensi che se oggi fossero obbligati per legge, a leggerlo, una volta letto verrebbe dimenticato più in fretta di una sentenza di condanna a carico di un pregiudicato?» mi chiese a un certo punto. Il riferimento alla degenerazione dei palinsesti televisivi degli ultimi trent’anni, avvenuta in concomitanza con l’avvento delle tv commerciali e la conseguente divulgazione ininterrotta di trasmissioni a dir poco video inquinanti, era evidente. Considerato però che durante la premessa di questo nostro confronto avevamo concordato di evitare deliberatamente qualsiasi genere di digressione politica, non entrai nel merito, limitandomi a ricordargli, provocandolo, che comunque qualcosa di buono l’aveva portato l’uso delle telecamere, facendogli alcuni banali esempi (come l’impiego di filmati di video sorveglianza usati come deterrente, o il monitoraggio dei pazienti in ospedale, e via discorrendo). Lui comunque, invece di stare alla mia provocazione, mi “avvisò” (non senza ironia) che quegli esempi erano non soltanto pertinenti, visto l’utilizzo, ma che qualcuno avrebbe dovuto pensare perfino di trasmettere a reti unificate lo svolgimento di un’eventuale rapina a mano armata (con tanto di rapimento di ostaggi) senza per forza dover aspettare l’intervento di una sola emittente pronta a garantirsi i proventi derivati dalla trasmissione in diretta di quello straordinario spettacolo. Cosa questa che puntualmente già avviene comunque. Di conseguenza, giustificandolo in qualche modo, per deduzione mi convinsi che in via subliminale mi stava dicendo questo: osservando la famosa bacinella del barbiere, io non avrei mai potuto scorgere l‘Elmo di Mambrino, considerato che il lavoro che ero costretto a fare – vale a dire promuovere scritti inconsistenti, divulgati esclusivamente attraverso un’editoria a pagamento e i cui autori avrebbero continuato a naufragare nell’anonimato per l’eternità – non era certo tra i più consoni e utili a quel che lui stesso definì essere la sua “rivoluzione”. In buona sostanza ai miei occhi divenne un puro, il Verdi, uno che mai avrebbe accettato dei conformismi sulla base di effimeri compromessi. Il suo riserbo e il suo malcelato distacco relazionale però – manco avessi avuto a che fare con un misantropo – non mi impedirono certo di chiedergli chi fosse questa donna che rispondeva al nome di Laura, se era sua moglie, una sua amante, o magari sua sorella, e soprattutto quale ruolo aveva nell’introduzione di quel suo ambizioso, per non dire inattuabile progetto. Mi rispose che era una sua amica. Mi disse anche che la conobbe solo qualche anno prima del nostro incontro, durante la presentazione di un suo romanzo al Circolo dei Lettori. Il romanzo scritto da Laura G. in sintesi parla di cattiveria gratuita, di come molto spesso, specie di questi tempi, le relazioni interpersonali continuino a degenerare progressivamente proprio a causa di questa acredine apparentemente immotivata, insita ormai nell’animo di una nutrita maggioranza. Nel dipanare la sinossi e i tratti peculiari dei suoi protagonisti, Laura trasmetteva ai presenti quella padronanza letteraria tipica degli accademici, di chi insomma ha dedicato e continua a dedicare la propria esistenza allo studio filologico o, in qualità di Presidente di un Comitato di Lettura, alla valutazione di testi iscritti ai Concorsi che anno dopo anno si susseguono. Evidentemente fu proprio quella padronanza letteraria a colpire il Verdi, tant’è che, dopo essersi informato su di lei, iniziò un’interessante corrispondenza telematica che portò entrambi a conoscersi di persona. Così, senza che io glielo chiedessi, prese a parlarmi di lei come un fiume in piena: l’elogio nei suoi confronti – misto a quella sorta di sudditanza reverenziale tipica di chi in pratica, come il Verdi, evitò deliberatamente di conseguire un titolo di studio statale soltanto perché, per assurdo, non avrebbe mai voluto finire per essere riconosciuto tra le spie e i ruffiani del sistema – era a dir poco maniacale. Se lei, giusto fare un esempio, durante la sua carriera letteraria un giorno dichiarò che se avesse potuto vivere un’altra vita non si sarebbe presa così sul serio, lui, a proposito di questo, riuscì addirittura a dirmi che lei fece quella dichiarazione mossa dal fatto che la sera prima lui le confidò l’esatto contrario, ovvero che se lui avesse potuto vivere una seconda vita non avrebbe pensato esclusivamente di viverla alla giornata, ma l’avrebbe vissuta come lei, immersa nei libri. Comprenderete perciò con quale genere di persona/personaggio entrai in contatto. Ai miei occhi non poteva non tornarmi nitida e reale la figura dell’Autodidatta che sfida Antoine Roquentin, il quale deve scrivere una tesi di Storia su di un avventuriero del diciottesimo secolo, il signor De Rollebon, ne La Nausea. Così iniziai a fantasticare sulla natura del Verdi, sul perché la sua esistenza – che tutto sommato mi era parso di capire che fino a quel dato momento era da considerarsi felice – avesse di colpo assunto una deriva nichilista. In buona sostanza credevo che non fosse altro che una parte opposta del mio ego, una specie di proiezione onirica incarnata in quel giovane anticonformista ribelle e soprattutto mai domo, ma che – a differenza dell’abuso che io stesso fui costretto a fare della mia razionalità (che mi ha sempre guidato nelle mie “indiscusse” scelte esistenziali, devo ammetterlo) – in quell’unica serata trascorsa insieme, ponendosi a modo suo al cospetto della vita in sé, riuscì ad illuminare quel poco che ancora ero in grado di osservare da un punto di vista irrazionale. Dopo quella volta però – considerato anche che l’indomani che seguì quell’incontro (ovvero sabato 29 Febbraio) lo cercai diverse volte al telefono su un numero cui lui stesso evitò accuratamente di rispondere per chissà quale ragione – non lo rividi più.
Passato qualche giorno (non ricordo esattamente quanti, se fossero tre oppure quattro) per prima cosa contattai Laura G., la quale, non senza sincera angoscia, invitandomi in quello stesso appartamento del centro storico non lontano dalla stazione ferroviaria, dove lei abitava ancora, mi raccontò che la Domenica appena trascorsa, ovvero quella del Primo Marzo dell’annus horribilis, scomparve letteralmente dalla circolazione senza che lei ebbe modo di rendersene conto. I giorni dunque passarono lenti, ma inarrestabili, e pieni di speranza mista a quella consapevolezza di non poter cambiare il mondo per ovvie ragioni, ma proprio in ragione di questo di volerlo cambiare lo stesso, un po’ come quando si affronta la lettura del Chisciotte.
Stavamo insieme da circa un paio d’anni e tutto pareva andasse a gonfie vele nonostante il periodo, disse a una certa, secondo la sua personale reazione, immediata alla mia visita: «… era così felice, così pieno di entusiasmo quando gli dissi che stavo per annunciare via social l’introduzione al suo Libro Pubblico Unito, che sembrava un ragazzino al quale gli avevano appena detto di essere stato scritturato per interpretare la parte di Ralph, uno dei protagonisti buoni de Il Signore delle Mosche… pensa soltanto che la sera prima di andarsene mi ha inviato perfino il Primo Capitolo, ovviamente l’unico scritto di suo pugno… se vuoi te ne leggo un pezzo, così, giusto perché tu possa fartene un’idea, ti va?» mi domandò d’emblée, con viva esortazione. «Certo che sì» risposi io. «Bene» disse lei, mentre si attivò per cercare sul suo smartphone il testo scritto. «Ehm… se in qualsiasi modo posso rendermi utile per cercare di…» tentai di accennarle in tono alquanto imbarazzato, vista la situazione, nel tentativo di offrirle delle informazioni che potessero servire al ritrovamento. «… ti ringrazio Andrea, sei stato molto gentile a venire qui. Ma vedi, ho denunciato la scomparsa lunedì sera e sono già passati tre giorni e mezzo senza che io abbia ancora avuto delle notizie confortanti Cristo santo! Quindi non vedo proprio come tu possa…» «… ma che cosa ti hanno detto? C’è una qualche speranza? Aveva dei nemici che tu sappia?» «No, non credo… almeno, non posso certo dire di conoscerlo a fondo, ma…» «… c’è forse qualcuno a questo mondo in grado di dire di conoscere qualcun altro, per non dire se stesso, a fondo?» «Comunque sia è una brava persona, insomma, non riesco proprio a spiegarmelo che se ne sia andato via così, senza lasciarmi detto o scritto nulla!» «Proprio nulla no, mi viene da dire.» replicai d’istinto, mentre lei aprì la schermata sul telefono dov’era contenuto l’incipit del Primo Capitolo. Così iniziò a leggere ad alta voce: «C’era questa cosa della supremazia intellettuale – cosa che a me… » «Un momento: è la stessa cosa che ha letto anche a me la sera che ci siamo incontrati a teatro!» la interruppi bruscamente, esclamando basito. «E allora? Pensi forse che possa esserci un qualche nesso forse?» mi domandò con un’aria piuttosto infastidita, oltre che rassegnata. «No, però… beh ecco, mi sembra quanto meno assurdo che…» «…. ma lui è, assurdo! Altrimenti non si sarebbe permesso di farmi uno scherzo del genere!» «Ti spiacerebbe continuare a leggere quello che ha scritto, per cortesia? A partire dalla descrizione del suo sogno, voglio dire. Lo so che non ha senso, ma te lo sto chiedendo come favore personale.» le chiesi garbatamente e, dopo un attimo carico di tensione emotiva, cominciò di nuovo a leggere: «Vero è che ogni Jack ha la sua, di Laura, e non a caso è stata proprio la mia ad aiutarmi in questa cosa, ma è altrettanto vero che ogni Laura sa sia come che quando è il caso di dover sopportare il proprio Jack. Vuoi che continui? … e va bene… Ora, se avete a cuore come il sottoscritto l’amore per la Verità, quello che Vi chiedo è soltanto di raccontarla nel modo in cui nessun altro possa travisarla, ovvero, dicendo quel che avete visto nei Vostri sogni ricorrenti più profondi attraverso un riassunto dei Vostri pensieri mentre stavate cercando di fissare nella mente le immagini che si sono susseguite nel corso di quelle visioni. Quel che segue, dunque, è quel che ho visto io: un aereo a forma di imbuto, dove i passeggeri entrano dal gambo e vengono trasportati uno alla volta da una specie di condotto luminoso, che li fa sedere direttamente su delle comode poltroncine disposte a spirale e posizionate all’interno del cono. Prima di noi sale una coppia di specchi grandi quanto due ragazzini. Questi specchi si tengono per mano e sono i soli ad esser trasportati in coppia, nel cono. Lì sopra ci sono uomini, animali e oggetti di ogni genere.Per paura di sapere perché ci troviamo lì sopra, così come per paura di conoscere la destinazione di quel viaggio che stiamo per intraprendere, Laura è tesa come una corda di violino e per questo non dice una parola quando montiamo a bordo del velivolo. Io invece, che ho più paura di lei, mi faccio una risata per non darlo a vedere. Poi una voce dice che siamo a Org e che mancano soltanto più dieci secondi alla partenza. Questa voce però non si sente con le orecchie, ma rimbomba in testa come una canzone che risuona di continuo. Allora chiedo a Laura se anche lei la sente e lei mi risponde che la sente, ma che invece di aver capito “Org” ha capito “Orf”. Un attimo prima di sapere che mancano solo più dieci secondi alla partenza, questa voce ci dice anche che quell’attimo equivale al regalo più bello che qualcuno ci potesse mai fare e che una volta arrivati a destinazione, vale a dire a Orh, dovremmo essere capaci da soli di capire perché, per poi tornare a Org/Orf e spiegarlo a questa stessa voce. Arrivati dunque a Orh, una volta scesi entrambi dal velivolo per prima cosa ci mettiamo a urlare e a piangere di continuo, insieme, senza sapere perché. Gli animali invece, così come il resto dei passeggeri/oggetti, non piangono. Così Laura chiede a un vecchio (che piange e urla anche lui, un vecchio con la barba e i capelli bianchi molto lunghi) se conosce le ragioni di questo, e il vecchio le risponde che loro non piangono perché sanno già quello che devono dire al loro ritorno. Allora io gli chiedo se lo sanno anche gli specchi che si prendono per mano, e il vecchio mi risponde che loro lo sanno e sanno anche che noi tutti (incluso il vecchio) piangiamo e urliamo perché non sappiamo ancora quale faccia abbiamo o quale faccia dobbiamo usare per restare a Orh. Devo proseguire?» mi chiese poi, dopo un attimo di esitazione, alzando la testa con una faccia che implorava di farla smettere. «No, non mi sembra il caso. Anzi… ti chiedo umilmente scusa se ti ho in un certo qual modo costretta a sottoporti a questa lettura… so che per te non dev’essere stato facile.» «Vedi… la cosa che più di ogni altra sta continuando a infondermi speranza è che credo sia uno dei suoi soliti scherzi, di pessimo gusto ovviamente.» «Perché credi che gli sia venuto in mente di farlo proprio a te?» «Non lo so… davvero non so cosa risponderti Andrea, so soltanto che quando, o se, si ripresenterà qui, credo proprio che non sarà facile per me perdonarlo.» «È comprensibile. Che genere di scherzi era solito fare?» «Era bravo con le imitazioni.» «Era?» «È, è vero, hai ragione! Una volta ha perfino…» interrompendosi con una risatina smorzata sul nascere, per essersi ricordata evidentemente di un aneddoto che lo riguardava. «Racconta, racconta… ti prego! Sdrammatizzare fa sempre bene.» la esortai. «Beh ecco… c’era questa presentatrice che conoscevo da vecchia data, una che ha sempre lavorato per un giornale locale e che quella volta fu inviata in qualità di corrispondente in un canile della zona per raccogliere alcune testimonianze dal vivo a proposito di una lodevole iniziativa mirata a sensibilizzare ulteriormente l’opinione pubblica sul valore di aiutare gli animali più sfortunati.» «Ti aveva fatto qualcosa in particolare questa tua conoscente? Qualche sgarbo, qualcosa insomma che avesse potuto dare adito a lui, di… » «… no, affatto! Anzi, mi disse poi che gli venne in mente di fare quello scherzo soltanto perché in quel momento gli andava di farlo, tutto qui.» «Mentre stavamo entrambi assistendo alla diretta televisiva comodamente seduti sul divano, si assentò per circa dieci minuti dicendo che aveva bisogno di andare in bagno. A mia insaputa aveva fatto il numero dell’Ufficio d’Economato della Santa Sede. Senza dire nulla, ma attivando un trasferimento di chiamata, aveva poi digitato il numero della redazione di quel giornale locale e, spacciandosi per il Santo Padre, era riuscito a farsi passare la linea…» «… non ci credo. E lei, ci ha creduto?» «No. Anche perché io, presa dalla “notizia sensazionale”, corsi immediatamente in bagno per dirglielo a lui… così venne poi tutto alla luce.» «Dunque è proprio come si suol dire: un buontempone!» «Non lo definirei così.» «E come, allora?» «Sì!» rispose in tono isterico e in viva voce, di scatto, al primo squillo del suo cellulare. «Buongiorno. Parlo con la stessa signora che lunedì sera ha sporto denuncia per la scomparsa di tale Giuseppe Verdi?» domandò una voce maschile, in tono risoluto. «Sono io. Mi dica.» «Questa mattina alle ore 06.11 è stato rinvenuto il cadavere di un uomo nelle acque del Po. Non aveva documenti e non portava alcun segno di riconoscimento. Oltretutto il volto è stato sfigurato da ustioni di secondo e terzo grado. Pertanto le devo chiedere di recarsi in centrale per l’eventuale identificazione tramite l’abbigliamento o qualche segno corporeo particolare. Tenga presente che la centrale chiude alle ore 17.30.» L’istante dopo crollò, urlando e scoppiando a piangere a dirotto. Cercai invano di consolarla. Il ritrovamento di quel cadavere non fornì agli inquirenti alcun indizio che potesse essere d’aiuto per un’identificazione definitiva. Laura G. non lo riconobbe come Giuseppe Verdi, o perlomeno diede l’impressione di non riconoscerlo. Dunque divenne un caso irrisolto. Tenendo poi anche conto che il giorno seguente, ovvero l’8 Marzo, chiusero tutto a causa delle tristemente note ragioni, le probabilità che riuscissero a risalire alla vera identità si ridussero al lumicino. Con Laura G. mantenni il contatto, ovviamente, e durante quel periodo si instaurò un rapporto confidenziale anche con mia moglie. Senza perderci d’animo, ma comunque senza avere più la possibilità di condurre delle ricerche sensate, insieme, cominciammo da remoto a reperire ogni informazione utile che potesse riguardare la sua identità. Considerato che a Laura G. – vuoi per la reciproca infatuazione e vuoi anche per la fiducia che si era progressivamente instaurata tra loro due – non passò mai per la testa l’idea che potesse aver usato un nome falso, cominciammo proprio dall’anagrafe del loro stesso Comune di residenza e, infatti, scoprimmo che il vero nome era un altro, ovvero, Giuseppe R. e che l’aveva cambiato (pagando una cifra considerevole soltanto per aver sostituito quattro consonanti del cognome a noi noto) senza specificare la motivazione, a detta dell’impiegato dell’ufficio anagrafe del suo Comune di nascita, il quale ci disse anche che quella operazione risaliva ormai a qualcosa come dieci anni prima. Il giorno seguente quella scoperta, Laura G. ci informò che non era vero nemmeno che non avesse voluto conseguire alcun titolo di studio statale perché era appena riuscita a risalire al suo percorso di studi, che dimostravano in modo inequivocabile che Giuseppe R. si laureò in scienze delle telecomunicazioni all’Alma Mater Studiorum. Quindi, consapevole della rilevanza di tali scoperte, Laura G. le rese note agli inquirenti che si erano occupati della scomparsa di Giuseppe Verdi, avvenuta in circostanze fortuite con il ritrovamento di quel cadavere, che evidentemente apparteneva ad un’altra persona. Dopo un paio di settimane, a seguito di ricerche più approfondite, un agente di Polizia le comunicò che nel vissuto dell’attore in questione figurava anche la militanza in un noto Partito politico e che, dopo essere stato incriminato per concussione e turbativa d’asta, venne anche condannato alla pena di quindici mesi di reclusione, pena che di fatto gli fu commutata in sentenza assolutoria definitiva perché sopraggiunsero degli elementi probatori che permisero al legale che rappresentava la sua Difesa di scagionarlo. Alla luce di queste nuove indiscrezioni dunque – confermate per altro dagli stessi inquirenti (i quali archiviarono il ritrovamento del corpo di quell’uomo come caso irrisolto) – Laura G. sospese per un certo periodo il nostro rapporto, confidando a mia moglie che era meglio che restasse un po’ da sola a riflettere. Mia moglie le disse che era del tutto comprensibile, ma che in qualsiasi caso lei avesse voluto chiederci qualcosa noi ci saremmo resi disponibili. D’altro canto, io non potevo certo darle torto. Quel periodo durò circa un anno e mezzo, quasi due. Passata la pandemia, verso l’inizio del 2023, Laura G. mi chiamò sul cellulare dicendomi che aveva delle cose importanti da dirmi di persona, dandomi un luogo e un appuntamento per il giorno dopo. Dunque ci incontrammo di nuovo, finalmente in presenza. A vederla così, di primo acchito, sembrava un’altra persona. Di certo era trasformata, sia dalle scoperte relative a Giuseppe R., che comunque dalla sua assenza, oltre che ovviamente (come tutti) dalla pandemia, resta il fatto però che, non appena ebbe modo di esternare le sue riflessioni, compresi ben presto che era ancora innamorata di quel filibustiere/mattacchione. Mi disse che forse era riuscita a capire, dove se ne era andato, perché la settimana prima ricevette un WhatsApp contenente un fermo immagine di una stupenda spiaggia caraibica raffigurante un pontile (lambito dalle calme acque color verde/ turchese) situato tra la battigia e il mare, lo stesso luogo che un giorno promise di portarla non appena avessero entrambi deciso se passare o meno la vita insieme. Congetturando sulla sua promessa, convenimmo entrambi che doveva aver escogitato qualcosa di losco per essere riuscito a sfuggire ai vari controlli, ma che comunque avesse agito in buona fede. Perché? Beh, in primis perché gli atti delle accuse infamanti che lo riguardavano di persona – sebbene fossero attendibili – non furono mai mostrati alla diretta interessata nonostante lei ne avesse fatto più volte richiesta. E poi perché, conoscendolo, proprio non si poteva giungere alla conclusione che – nel caso avesse deciso di turlupinare il prossimo – lo avesse fatto per tornaconto personale, ma soltanto con l’intento di restituire il maltolto a chi, per questioni di Stato, ne avesse avuto diritto. Comunque, onde evitare una sua seconda cocente (per non dire fatale) disillusione, mi sentii in dovere di avvertirla che – qualora non si fosse fatto sentire entro la fine dell’anno appena iniziato – era meglio per lei che se lo dimenticasse. Ovviamente mi diede ragione. I giorni dunque passarono lenti, ma inarrestabili, e pieni di speranza mista a quella consapevolezza di non poter cambiare il mondo per ovvie ragioni, ma proprio in ragione di questo di volerlo cambiare lo stesso, un po’ come quando si affronta la lettura del Chisciotte. Nel frattempo, su iniziativa della mia fedele assistente Consuelo T., fondammo una sezione della nostra piccola e sconosciuta casa editrice, una sezione mirata a raccogliere in un unico archivio tutti quei manoscritti cartacei rifiutati dalle grandi case editrici, incluso il Primo Capitolo del Libro Pubblico Unito (che Laura G. ebbe cura di far rilegare), nella speranza di poter ricevere una sua corrispondenza. Purtroppo però, sebbene tali manoscritti giunsero copiosi, di lui non si seppe più nulla. A Ottobre però, avvenne il “miracolo”. Il 14 infatti, con nostra immensa gioia e stupore, giunse in redazione il tanto atteso quanto inimmaginabile Secondo Capitolo in via telematica, a firma di tale Mario Bianchi. Inutile dire che per Laura G. significava essere rinata e non appena lo venne a sapere volle subito leggerlo di fronte a tutti noi della redazione, inclusa mia moglie. Non stava più nella pelle, al punto che, una volta posizionatasi in piedi dietro la scrivania e davanti la schermata inerente, leggendo, preconizzò: «Non ho mai creduto alle presentazioni e nemmeno alle promesse, a dire il vero. Quindi tagliamo corto. Io di sogni ne facevo tanti una volta e me li ricordavo sempre tutti. Poi però con il passare del tempo non me li ricordo più. A volte mi succede per esempio che mi restano in testa per una frazione di secondo prima di svegliarmi, ma poi svaniscono. Perciò da quando ho capito che non me li ricordavo più ho iniziato a scriverli sul mio diario personale, che guai a chi me lo tocca! Sarei capace addirittura di uccidere se sapessi che qualcuno ha osato prendermelo e guardarselo di nascosto! Allora questa che ora sto per raccontarvi è la descrizione di tutti i sogni che ho fatto, a partire da quando ero un bambino fino a oggi, che sono grande, compresi quelli che sono riuscito ad accalappiare e trascrivere da quelle frazioni di secondo. A quel punto, invece di proseguire con la lettura del racconto, scoppiò in lacrime e mi abbracciò. Finimmo così quella giornata decidendo di passare la serata insieme, con mia moglie.
A proposito, anche mia moglie si chiama Laura. E quella stessa notte mia moglie sognò che uno storico contemporaneo, che si occupa ancora sia della vita che delle opere del grande maestro di Busseto, aveva fatto una scoperta sensazionale portando alla luce uno spartito le cui note furono create apposta per musicare il Chisciotte, ma che soltanto grazie alla sagacia di qualcuno che era stato molto vicino al compositore, è emerso, perché lui non voleva fosse reso pubblico.