INDICE ANALITICO
I servi non servono
L’importanza del pensiero irrazionale
Se il riso sulla bocca degli stolti fosse incontenibile invece che
abbondante
si correrebbe il rischio di diventare dei super eroi,
nella maggior parte dei casi
Arimane
La differenza
Pregresso e regresso
La colpa universale
Pianificazione condivisa
Sub aliena umbra latentes (quelli che si nascondono all’ombra degli altri)
Resa incondizionata
Cercasi trogloparassiti, no perditempo
L’amore interpretato
I SERVI NON SERVONO
Che cosa è utile e che cosa non lo è bene o male si sa, bisogna però poi
vedere perché tutto questo inutile e tutto questo utile - che
progressivamente ci siamo abituati ad accumulare durante le nostre brevi
vite tramite un continuo loro congiungersi, e sebbene crescano di pari
passo ma in direzioni opposte rispetto all’ignoto percorso esistenziale -
non riescano quasi mai a riconoscersi con una scelta adeguata.
Se ciò che per principio si riteneva fosse fondamentale, e perciò utile,
all’età di diciassette anni - poniamo un valore assoluto quale la libertà di
pensiero - con il passare del tempo e delle conoscenze assimilate nel
tempo si potesse ragionevolmente ritenere superfluo, e perciò inutile,
all’età di quarantasette anni - a riguardo dello stesso valore - perché
all’approssimarsi dell’ipotetica fine di un’esistenza biologica
(alla tenera età di centosei anni per esempio) non si dovrebbe ritenere
che la libertà di pensiero possa essere fonte di potenza creatrice oltre che
di longevità? La stessa identica cosa - cosa intesa nel senso più lato del
termine - ripetuta nei secoli per salvaguardare il retaggio universale
dei popoli sulle nostre origini, servirebbe a nulla se non fosse
continuamente elaborata e riadattata alle esigenze dei contemporanei,
e nonostante questa banalità risulti tale agli stessi è necessario ricordarla
per riconoscere che potrebbe ancora servire. Così come del resto è utile
ricordare che nell’attuale sistema socioeconomico il marketing 3.0 gioca
un ruolo determinante, sia per il merito che per il metodo di orientare i
consumi attraverso studi di settore basati su neuroscienze che
invogliano il consumatore ad acquistare un prodotto senza nemmeno
dover chiedere allo stesso se è di suo gradimento, propinando strategie
senza dubbio rivoluzionarie ma che al tempo stesso vengono addirittura
definite “umaniste”. Rispetto alla vecchia pubblicità, quella considerata
di massa, è più incisivo, indubbiamente più efficace, ma a che cosa
dovrebbe servire in realtà se non ad omologare altre “nuove” masse di
individui pronti a consumare tutto ciò che quelle stesse masse ritenevano
che non dovesse più servire fino a qualche anno prima?
In questo caso per esempio, per riuscire a scegliere - e già in questo
senso il verbo implica una serie articolata di pensieri che sarebbe
improbabile determinare con certezza le ragioni di una scelta, o di una
decisione - se poteva o meno essere utile dire quanto appena detto a
proposito del marketing 3.0, prima di porre la domanda occorreva anche
ricordare “l’aspetto condivisibile per antonomasia” che questa suprema
forma di propaganda ha saputo imporre sul mercato : ovvero il fatto
inequivocabile di generare minoranze senza aver l’obbligo di prodigarsi
in consigli per gli acquisti o in campagne elettorali prestabilite. Eppure
per riconoscersi, congiungendosi di pari passo giorno dopo giorno nelle
opposte direzioni, l’utile ha bisogno dell’inutile così l’inutile necessita
dell’utile. Un rapporto di coalescenza è dunque vano e al tempo stesso
indispensabile, alla stregua dell’azione e della non azione, della
trascendenza e dell’immanenza, dell’eterno ritorno dell’identico e della
continua metamorfosi geologica che caratterizza le varie ere che si
susseguono. Ciò di cui l’umanità ha bisogno non deve necessariamente
essere detto o scritto da nessuna parte, servono solo individui più
responsabili e soprattutto più indipendenti. Paradossalmente invece un
esercito sterminato di servi di ogni età, razza, sesso, religione e professione
continuano a svolgere il loro inutile compito senza assumersi la benché
minima responsabilità - nonostante l’importanza dei ruoli che ricoprono -
tornando utili soltanto a quell’occulta cerchia di oligarchi che imperversa
da troppo tempo, condizionando la vita della maggioranza delle persone.
Se occorre però ripetere simili visioni per cercare di salvare il nostro
patrimonio mnemonico relativo a una materia come l’identità, visto
e considerato che l’argomento interessa tutti, è bene ricordare che i pur
encomiabili sforzi compiuti fino ad oggi sono stati vani, forse perché
a forza di dimostrarli, di confutarli e di ripetere letteralmente per secoli
le rispettive dimostrazioni e confutazioni si è centuplicata in modo
spontaneo e naturale la voglia di dimostrare e di confutare teorie
e concetti a tale proposito, o forse perché da un punto di vista più semplice
(e utile) sarebbe anche ora di fare i nomi e i cognomi di questi poveri e infelici oligarchi
il cui unico scopo - non che dedizione - è, e d’altra parte non potrebbe che
continuare a essere la filantropia. La cosa buffa è che un discreto numero
di questi servi si arrovella le meningi giorno per giorno pur di redigere un
editoriale “pungente” - carico di quella “giusta ironia” che dovrebbe far
riflettere e sensibilizzare l’opinione pubblica su argomenti riguardanti
l’individuo in prima persona, ma che purtroppo invece risulta essere
utile solo alla ridicola concezione che quando un datore di lavoro fa una
battuta, indipendentemente dal livello di sarcasmo o di ironia contenuta,
un dipendente debba per forza di cose recitare la parte dello spettatore
che si sta divertendo. E pensare che nella vastità degli spazi annessi
all’immenso vaso di Pandora che appartiene a questi servi, certi giornalisti
sono ancora considerati dei falchi. Ora, è vero che se immaginassimo le
colombe le battute si sprecherebbero a iosa - non soltanto per certi
giornalisti - di conseguenza, a onor del Vero, l’universale dilemma su cosa
è utile e cosa non lo è merita un particolare approfondimento.
L’IMPORTANZA DEL PENSIERO IRRAZIONALE
Se andiamo avanti di questo passo chissà dove andremo a finire è una di
quelle domande ricorrenti, oltre che scontate, che di solito ci poniamo
quando le cose iniziano a peggiorare più o meno per tutti. Incertezze,
ansie, incomprensioni, paure, sono tutti stati d’animo provati dal nostro
essere razionale che non può fare a meno di osservare il mondo
circostante. L’ennesimo “scienziato” dell’inconscio che non ha più voglia
di occuparsi del suo vero lavoro e che pur di dire qualcosa che pensa di
sapere ha deciso di rendersi ridicolo - questo in linea di massima dovrebbe
essere ciò che passa per la testa dell’individuo medio nel leggere queste
poche righe: è logico, non potrebbe essere altrimenti, anzi, immaginare il
contrario aprirebbe scenari inquietanti perché vorrebbe dire che il soggetto
in questione è cresciuto a livello cognitivo, e che perciò potrebbe sfalsare
i parametri relativi alla sua stessa classificazione. In realtà il pensare
avendo dei solidi pregiudizi radicati nella coscienza è un sistema di auto
difesa ben noto agli psicanalisti, i quali, per sondare l’insondabile, hanno
bisogno di sapere ciò che viene rimosso dalla coscienza. E’ dunque lecito
supporre che il rimosso sia una prerogativa essenziale per guarire dal
cosiddetto mal di vivere? Supponiamo che un paziente che ha deciso di
sua spontanea volontà di sottoporsi ad analisi per cercare di smettere di
bere superalcolici debba descrivere a scopo terapeutico, seduta dopo
seduta, tutte le fasi inerenti alla sua dipendenza, e che l’analista -
rendendosi subito conto che le cause sono di carattere affettivo - invece
di spronarlo a prendere la vita con più entusiasmo, magari con più ironia,
convincendolo prima a ridurre le dosi, per poi farlo smettere del tutto,
faccia leva proprio sulle sue carenze affettive per prolungare le sedute
prescrivendogli farmaci omeopatici o convenzionali. In tal caso, secondo
ovvie deduzioni, l’evidenza del rimosso del paziente, che contribuirà a
soddisfare l’avidità del medico che se ne approfitta, non farà che aggravare
la condizione del primo e stimolare ulteriormente l’autostima nel secondo.
Mentre in caso contrario - ovvero tramite una cura efficace e professionale
- il rimosso del paziente verrà usato dallo stesso per risanare dei rapporti
familiari compromessi, forse, o quanto meno nei casi più fortunati, e dallo
psicanalista come nuovo materiale di approfondimento. In sintesi, come si
combatte il mal di vivere sapendo che la domanda è senza risposta?
Non è forse vero che chi avesse la presunzione di anche soltanto sognarsi
di poterne dare mezza, o per dire anche solo la metà di quella mezza
attraverso eccessive auto celebrazioni raccolte in “opere monumentali”
verrebbe internato in una cella d’isolamento in manicomio perché con le
sue risposte potrebbe anche far rinsavire gli altri, che evitando di fare un
panegirico direbbero tutto sommato le stesse cose? Quando si invecchia
pensando che il tempo passato non ritorna, ovvero quando la disillusione
e il rammarico per gli scopi che non si sono riusciti a realizzare durante il
corso dell’esistenza sono ovviamente diventati dei capisaldi razionali nella
propria visione del mondo, si accettano le cose per quelle che sono, vale
a dire che ci si pone un limite entro cui la rassegnazione resta confinata.
Questo limite è da considerarsi pura illusione. Che cosa ci dovrebbe essere
infatti entro questo limite se non la consapevolezza che si passerà il resto
dei nostri giorni in preda a una deplorevole, se non la più deplorevole delle
illusioni? L’illusione non è altro che un’atavica espressione del pensiero
irrazionale che ha bisogno di trascendere il pensiero stesso per essere
riconosciuta. Approfondire il significato di una simile affermazione però
non vuol dire ripetere come un mantra i fondamentali concetti filosofici che
ci hanno tramandato le diverse culture di ogni epoca, vuol dire piuttosto
arrendersi all’idea che non c’è modo di trascendere il pensiero umano se
non attraverso una meditazione immanente al divino. Dio ha dimostrato
nel corso della storia dell’umanità che il suo interesse per gli atei è a volte
superiore rispetto a quelli che hanno fede nelle varie forme di religioni
esistenti - forse perché vuole limitarsi ad osservare fino a che punto li
condurrebbero i loro limiti, o forse perché conosce fin troppo bene il
demoniaco per non limitarsi a fare la stessa cosa. Resta il fatto che per
trascendere il divino non esistono alternative, l’assurda condizione della
nostra breve esistenza non può che confermarlo. Quando muore qualcuno
di famiglia, o comunque una persona a noi molto cara, è la mancanza,
il vuoto incolmabile che quella persona ha creato con la sua sola presenza
a dominare i nostri sentimenti, eppure al tempo stesso non ci rassegniamo
all’idea che quella persona non ci sia più, perché nonostante la sua
assenza - che in ogni caso attenuerà con il tempo il potere di quei
sentimenti - i ricordi legati a un dialogo sincero e conviviale continueranno
ad emergere anche se quella persona era di carattere diametralmente
opposto al nostro, incline addirittura a disprezzare la vita. D’altro canto,
se così non fosse, che cosa dovrebbe emergere in coscienza se non un
oblio condizionato e consolidato dal palese costrutto del carattere di
quella persona, così ostile al solo fatto di “dover” esistere?
Secondo alcuni il fatto di usare il pensiero razionale in modo positivo,
ovvero il ricordarsi di avere un’immagine del proprio io che può essere
modificata per renderci felici a qualsiasi età e in qualsiasi condizione,
è l’unica chiave in grado di aprire le porte del successo - successo inteso
come risultato, non come popolarità - all’individuo che vuole conseguirlo.
Se fosse così allora dovremo essere tutti felici, dimenticarci - proprio da
un punto di vista razionale - che esistono altre persone che soffrono, che
stanno male e che molto probabilmente mai avranno quella speranza di
poter stare meglio a causa di altre persone che pensano solo in modo
positivo. Il fatto che si sia fondata su queste basi una scuola di pensiero
- o sedicente tale - implica una serie di riflessioni che vale la pena
ricordare. Da un punto di vista razionale infatti sarebbe logico dimostrare
il contrario: verrebbe spontaneo e naturale a chiunque dovesse sostenere
delle tesi a favore di questa scuola di pensiero iniziare a giustificare
l’atteggiamento mentale di chi vuole “cambiare” la sua identità pensando
possa farcela da solo, per poi convincerlo a rafforzare la sua autostima
con pratici esercizi intellettuali da seguire giorno per giorno, e finire poi
per creare quel genere di individuo che crede di aver capito tutto nella vita
traendo l’inevitabile conclusione che solo quelli che non la pensano così
meritano di essere considerati dei falliti. Secondo questi luminari dell’A.S.*
quindi (l’Accademia del Sorriso,* sorriso costantemente stampato in faccia
per dimostrare di poter dispensare pillole di saggezza senza nemmeno
sforzarsi di dire una parola) con la sola forza dell’auto convinzione a usare
positivamente il pensiero razionale - come potrebbe essere altrimenti, visto
che i “pratici esercizi intellettuali” consigliati durerebbero un bel po’ e che
a forza di ripeterselo lo capirebbero perfino le scimmie - e a seconda del
grado e del genere di competenze assimilate, ciascun individuo avrebbe la
facoltà di controllare sia la propria sfera emotiva che quella professionale.
Sarebbe un po’ come se un neurologo per esempio, di indubbie capacità,
prima di presiedere una conferenza circa una sensazionale scoperta
relativa al sistema nervoso avesse messo in pratica le suddette teorie,
e che invece di limitarsi a dimostrare i concetti della sua scoperta si fosse
montato la testa a tal punto da pensare che il mondo intero dovrà in
qualche modo dipendere da lui. Con ciò non si vuole certo demonizzare il
pensiero razionale, ci mancherebbe, anzi, dovrebbe essere la linea di
pensiero guida per quei venditori che pullulano di fumo una cucina
onnicomprensiva dove ormai pare che l’arrosto sia diventato una rarità,
questo si. Oggi come oggi immaginare di poter dire delle cose che non sono
ancora state dette in fondo equivale a pensare che l’illuminismo non sia
mai esistito - e questo non perché lo scopo dell’illuminismo era quello di
proporsi di debellare l’ignoranza con un’analisi razionale applicata
all’esperienza, ma più che altro perché con l’esperienza si è potuto
constatare che sono troppi quelli che non sanno neanche più cosa sia
l’illuminismo. In verità ciò che conta nel pensiero irrazionale - a
prescindere da falsi preconcetti e da corrette interpretazioni che in
molti casi si danno a tale proposito - è il darsi, è quell’offrirsi
spassionatamente agli altri in ciò che si fa con passione, senza un
particolare obiettivo da raggiungere e senza soprattutto dover dimostrare
niente a nessuno, sia che si tratti di lavoro, sia che si tratti della stessa
infame o gloriosa esistenza.
SE IL RISO SULLA BOCCA DEGLI STOLTI FOSSE INCONTENIBILE
INVECE CHE ABBONDANTE SI CORREREBBE IL RISCHIO DI
DIVENTARE DEI SUPEREROI, NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI
Saper ridere di se stessi è uno stato mentale indispensabile per
sopravvivere alle drammatiche e a volte tragiche storie che un
indescrivibile cortometraggio - quale è la vita, ideato e diretto da uno
sceneggiatore senza volto - ci racconta. Figuriamoci che cosa bisognerebbe
inventare per potersi salvare dalle trame e dai complotti replicati fino alla
nausea da certi registi che ci mettono pure la faccia per promuovere i loro
indimenticabili capolavori! Ridere senza un apparente motivo in situazioni
di per sé grottesche allo scopo di provocare reazioni inconsulte per
divertirsi, è una pratica consueta, che coinvolge chiunque sappia stare
al gioco di un umorismo cinico ma inevitabile per capire certi strani
comportamenti. L’aneddoto seguente è tratto dalla vita di un commerciante
di fiori, Ludovico, il quale venne invitato a cena in casa di un suo vecchio
amico di adolescenza, Paolo, per una rimpatriata. Paolo è un sedicente
pirata informatico, di professione fa l’operatore telefonico - una
“copertura” non proprio adeguata, ma sufficientemente stabile.
Erano passati diversi anni dall’ultima volta che si erano incontrati.
Entrambi sulla cinquantina avevano cambiato fisionomia oltre che le
rispettive mogli, le quali godono di una buona posizione sociale essendo
la prima - Emma, quella del commerciante di fiori - una criminologa, e la
seconda, Greta, il primo cittadino del comune dove tutt’ora risiedono.
Dopo i convenevoli - non appena trovarono il tempo di appartarsi -
i due vecchi amici si scambiarono “come da copione” parte di ciò che il
ricordo permise loro di raccontarsi circa le reciproche esperienze,
e venendosi a trovare a discutere di un efferato delitto avvenuto proprio
in quei giorni nei paraggi - un delitto commesso da due delinquenti con il
solo folle pretesto di voler provare la sensazione di uccidere e fare a pezzi
il cadavere di un perfetto sconosciuto risvegliandosi vicino a quel che
restava del corpo il mattino seguente - a Ludovico venne in mente di
mettere alla prova l’indole del ritrovato Paolo, confidandogli che sua
moglie Emma era inadatta al ruolo sociale che ricopriva in Polizia e che
glielo avrebbe dimostrato nel corso della serata. A tavola la conversazione -
in gran parte monopolizzata da Greta, che non la finiva più di elencare le
emergenze legate ai problemi burocratici della sua amministrazione ma che
al tempo stesso dava sfoggio della sua originale preparazione in materia
mostrando continuamente un personale vademecum in cui esibiva perfino
con orgoglio l’iter delle norme che seguiva per cercare di far rispettare
le vigenti leggi - fu sostenuta da Paolo con smodata ammirazione, quasi
a voler dimostrare al suo vecchio amico che sua moglie invece si che
era una che sapeva il fatto suo, tant’è che gli sguardi d’intesa tra Emma
e Ludovico (compreso qualche gesto che indusse Emma a capire che
Paolo fosse un “guru” dell’informatica) passarono inosservati.
Quando Emma iniziò a parlare del fattaccio dunque, Ludovico scoppiò
improvvisamente a ridere, e più lui rideva - incrociando lo sguardo di
Paolo - più non riuscivano a smettere, provocando il comprensibile
imbarazzo di Greta e il ben celato gesto di stizza da parte di Emma,
la quale pretese immediate scuse e chiarimenti. Il fatto che Emma
evocasse con i suoi modi quelli di una professoressa che Paolo e Ludovico
avevano in comune - il pretesto di Ludovico - sulle prime giustificò l’offesa,
ma la seconda occasione - quella in cui il finto alterco tra Emma e Ludovico
cominciò a delinearsi in tutta la sua esplosiva assurdità proprio perché per
un’infelice battuta di Ludovico, a proposito del fatto che l’omicidio lo
avrebbe commesso anche se fosse stato solo uno di quei due balordi
perché con quello che aveva in corpo avrebbe potuto uccidere sia quella
vittima che una folla intera, sopraggiunse un altro incomprensibile
momento di ilarità - fu un banco di prova decisivo per la coppia ospite.
Mentre Paolo era visibilmente sconcertato, in procinto di rivelare cosa
gli aveva detto Ludovico l’attimo prima, Emma paragonò quel genere di
crimine ad un eventuale caso di legittima difesa in cui un insospettabile
hacker, che poteva benissimo essere Paolo, avrebbe dovuto scegliere tra
l’essere ucciso da una spia dei servizi segreti che gli stava puntando contro
una pistola per aver scoperto che lavorava per un altro governo, oppure di
dare l’ordine tramite un auricolare conficcato all’interno del suo canale
uditivo di fare uccidere la stessa spia da un cecchino appostato dirimpetto
all’abitazione dove si trovavano in quel momento. L’istintiva reazione di
Paolo però non fu quella di rispondere alla domanda di Emma, ma
ovviamente quella di dire cosa gli aveva detto Ludovico. A quel punto
Emma e Ludovico scoppiarono a ridere senza più ritegno e talmente forte
che Greta e Paolo furono costretti ad andarsene. Probabilmente il mattino
dopo, sempre che si fossero scambiati i rispettivi numeri e sempre che
Paolo si fosse degnato di chiedere spiegazioni, Ludovico si sarebbe
rimesso ancora a ridere, non tanto perché non avrebbe avuto voglia di
spiegargli che la legittima difesa non c’entrava nulla con il macabro delitto
e che lui, Paolo, non era che un operatore telefonico, quanto perché,
inutile a dirsi, avrebbe avuto voglia di dirgli che si sarebbe candidato
alle prossime elezioni amministrative del loro comune di residenza.
ARIMANE
La gente non ha più voglia di innamorarsi, di prendere la vita con
entusiasmo, soprattutto di pensare al perché si trova qui - questo è quanto
di più sconcertante si avverte quando si deve riconoscere l’inutile dall’utile.
Ma perché, per riconoscersi, l’utile ha bisogno dell’inutile (e viceversa)
e perché dovrebbe essere necessario riconoscere nei meandri più reconditi
sia un concetto che la sua relativa dicotomia? Così come lo stolto necessita
di qualcuno che gli dica sempre cosa deve fare, anche il saggio in fondo
- per opposte ragioni - dimostra la stessa esigenza. L’ipotesi che a qualcuno
possa ancora venire in mente di fare delle supposizioni in merito al perché
sia utile o meno ripetere le eterne domande - da dove veniamo, cosa
facciamo qui, dove andremo - implica e al tempo stesso introduce la
motivazione del discernimento, ovvero ci prepara a una prova continua
e incessante per stimolare la nostra capacità a comprendere come quando
e perché si manifestano i contrari, a seconda della nostra indole e dei
nostri difetti o pregi. Ora, come e quando l’indole di un individuo possa
cambiare a seconda delle esperienze e delle vicissitudini è un dato
oggettivamente risaputo, e perciò irrilevante, ma perché cambia?
Se un Kamikaze sapesse che con il suo sacrificio i posteri che
appartengono al suo mondo non vivrebbero con più dignità si farebbe
saltare in aria lo stesso? E se invece lo stesso individuo venisse a sapere
attraverso vie misteriose che l’antesignano del nipponico vento divino fu
Gesù di Nazareth, che cosa sarebbe disposto a fare per quei posteri?
A partire proprio dal Cristianesimo, l’utilità - se così può definirsi, viste
e considerate le conseguenze - dell’immenso sacrificio divino fatto di
proposito in remissione dei peccati umani purtroppo è il risultato del vano
sforzo di certe minoranze, effimere, che da sempre cercano con ogni mezzo
di convertire in fede l’amore e il rispetto reciproco di perenni maggioranze
che non credono in nient’ altro che non sia utile ai loro scopi, e che si
divertono anche ad esortare i loro simili emarginando i pochi che ancora
credono in quei valori. Paradossalmente però - visto che il denominatore
comune che indica quei valori è riscontrabile in quasi tutte le religioni -
occorre saper attingere l’essenza del Bene da ogni fonte di conoscenza
insita nell’inesauribile scrigno verbale di queste religioni, perché l’utile
torni a governare le coscienze. A cosa servirebbe per esempio dire che il
culto delle forze naturali e dell’origine divina dell’Imperatore sia il principio
fondante dello scintoismo quando, qualora dovessero chiedercelo, non ci
verrebbe più in mente? Chi può dire di essere chi pensa di essere nella
realtà universale, e quale livello di conoscenza dovrebbe avere l’uomo per
cercare di sopravvivere alla propria inevitabile - e forse inutile,
considerando l’aspetto demoniaco che la domanda implica -
autodistruzione? L’eterna lotta tra il Bene e il Male non sono forse frutto
della nostra stessa potenza creatrice che demonizza il primo, in quanto lo
reputa un valore comune, e perciò monotono, mentre idolatra il secondo
perché lo vede come la forza soprannaturale più straordinaria?
In realtà l’aspetto più complesso e controverso che esiste nel riconoscere
il Bene dal Male, così come l’utile dall’inutile, è l’apparenza,
quell’apparenza così intrisa di ambiguità che ci costringe a propendere
per la guerra quando siamo in pace e ad anelare la pace quando siamo in
guerra. Come tutti sanno dunque, o per meglio dire, come tutti quelli che
adorano sapere - forse perché questi ultimi preferirebbero evitare di
imbattersi in incontri ravvicinati del quarto tipo, nel senso che il grado di
“conoscenze” assimilate da individui che appartengono a una categoria di
persone dette di quarto tipo, per non dire altro, sono “senza dubbio
superiori” rispetto al grado di conoscenza che potrebbe avere un individuo
che vive in perenne stato di ibernazione a diecimila anni luce di distanza
dalla nostra galassia teletrasportandosi ovunque desideri andare - nello
zoroastrismo Arimane è il Male, il sommo diabolico sovrano di tutte le cose
visibili e invisibili, colui il quale, o la quale, o anche cui - a seconda della
sua volontà di manifestarsi - governa indiscriminatamente la materia e tutti
i relativi esseri materiali. Ora, se è vero che Zoroastro, o Zarathustra, era
un essere preesistente alla nascita materiale, che fu inviato da Ahura
Mazda, che rappresenta il Bene, per predicare agli uomini la Vera religione,
perché Arimane - che in fondo è venuto dopo - dovrebbe avere l’esclusiva
sul dominio in generale? Oltretutto poi su una materia che non è la sua,
come quella dello spirito! A quale scopo e con quale pretesa osa
sottomettere i seguaci del materialismo - obbligandoli a venerarlo e a
massacrare vittime innocenti in suo nome, grazie anche a raccomandazioni
poco ortodosse - sapendo di non poterli ospitare tutti a causa di un
inevitabile sovraffollamento? Per riconoscere Arimane da Ahura Mazda,
o Cristo da Satana, bisognerebbe cercare di non dimenticarsi mai di
di guardare dentro agli occhi qualcuno in continuazione, ad ogni sacro
o profano istante che ci è stato concesso, per capire fino a che punto
sarebbe disposto a non tradire il suo libero arbitrio nel caso sapesse che
il passaggio dimensionale comporterebbe o la libertà o la dannazione
eterna - a prescindere dalla vera o falsa concezione dell’io che questo
qualcuno pensa di avere, sia nell’attraversare giorno per giorno le continue
gioie e avversità tipiche della nostra condizione, che nel varcare una soglia
abissale come quella ultraterrena. Se un prete ligio e devoto ai suoi credi
a un certo punto della sua vita venisse a sapere, dalla stessa voce che lo
ha convinto a prendere i voti, che ad aspettarlo dall’altra parte non ci sarà
che il nulla assoluto - ossia la dannazione - o crederebbe a una delle
innumerevoli prove, e a volte burle, che il suo dio padre onnipotente è
solito fare con i suoi figli prediletti - l’esempio di Abramo con Isacco è la
dimostrazione più lampante - oppure si darebbe al libertinaggio e alla
dissolutezza più sfrenata, ed è per questo che occorre vigilare senza sosta,
sia nei confronti di tali soggetti e sia nei confronti di altri, come ad esempio
un assassino di professione, il quale, se a un certo punto della sua vita
passata a uccidere - per far prendere tutt’altro genere di voti a qualcun
altro - venisse a sapere dal suo più diretto Dio superiore, convertitosi
improvvisamente a condurre una vita religiosa per cercare in qualche
modo di redimersi dai peccati commessi, che all’altro mondo potrà esserci
una vera libertà, incondizionata, o continuerebbe a vivere facendo sempre
l’assassino, ma iscritto nel libro paga di un altro Dio superiore, oppure
potrebbe anche iniziare a pensare di fare altro.
LA DIFFERENZA
Da che mondo è mondo la consapevolezza dell’utilità di un progetto deve
essere proporzionata al reale ed effettivo bisogno che gli altri hanno su ciò
che viene prodotto da quel progetto, indipendentemente dal genere.
A proposito di questo infatti non a caso esiste una differenza sostanziale
tra una reale e una fittizia necessità che gli altri attribuiscono ad un
prodotto - che in termini di tempo corrisponde all’incirca allo stesso
periodo di questa consapevolezza, ma che per ragioni inspiegabili viene
misteriosamente rivelata come speculare. Per capire meglio questa
differenza conviene fare un esempio : quando qualcuno espone e presenta
un nuovo prodotto, putacaso un prodotto tecnologico, di fronte a milioni e
milioni di potenziali utenti dimostrando di essere l’unico forse a non farne
uso, a nessuno verrebbe in mente che è in atto una vera speculazione.
Inoltre - se si tiene anche conto che l’effettivo bisogno che quel prodotto
emana è reale, senza nemmeno doversi fare scrupoli se possa piacere
o meno - il mistero si infittisce, diventa sempre più intrigante.
Di conseguenza come si potrebbe fare per evitare di porsi una domanda
quale “ma perché, ad oggi, c’è ancora questa differenza?”
Intanto va detto che l’elenco dei bisogni reali ed effettivi della collettività è
infinito, per fortuna, e che perciò il mercato globale dei prodotti in genere
non corre alcun rischio. Per rispondere alla domanda invece diventa
necessario capire prima perché bisognerebbe porsela.
Primo, questa differenza non è determinante, sia sotto l’aspetto
socioeconomico che sotto l’aspetto politico : il fatto che senza più
speculazioni il pianeta in cui viviamo tornerebbe ad essere più sano e
perfino più decente è del tutto opinabile, e secondo, se ad oggi c’è ancora
una differenza così assurda è perché - senza voler descrivere la fecondità
come una condizione ideale per le mogli degli speculatori - sono ancora
troppo poche quelle che intendono metter su famiglia. Paradossalmente
quindi, da quando l’ironia è diventata una cosa seria, proprio per evitare
di cadere nella banalità di domande retoriche, l’argomento non viene
approfondito con la sufficiente attenzione. Ora, che le cose nel tempo
siano state definite utili perché migliorano la nostra condizione è inutile
dirlo, in quanto è risaputo, oppure perché, invece di pensare a politiche
strategiche in grado di salvaguardare la nostra specie attraverso piani
straordinari di ridistribuzione economica si continuino a sperperare i
contributi pubblici per finanziare progetti insensati, è altrettanto inutile
chiederselo, così come del resto sarebbe anche inutile evocare il pensiero
di grandi uomini che hanno radicalmente cambiato il corso della storia
dell’umanità per cercare di alzare la soglia di attenzione in merito al
perché c’è ancora questa differenza. Tuttavia, per offrire una risposta
adeguata alla comune aspettativa, nonostante l’inutile continui imperterrito
la sua inesorabile marcia verso quel circolo vizioso che noi tutti
conosciamo e a cui tutti apparteniamo in qualche modo, ovvero l’eterno
ritorno dell’identico, l’utile, pur essendo qualcosa di effimero, possiede
ancora quella peculiarità che da sola basta a colmare qualsiasi lacuna
inerente al noto circolo vizioso : ovvero si rigenera, diventa nuovo ogni
volta che smette di servire, per servire sotto una nuova luce, per far si che
altri possano godere di quella luce in buona sostanza. Va da sé che questa
differenza resti, che rimanga un caposaldo nella comprensione del
discernimento dei contrari in questione. Qualora non ci fosse più, vale a
dire nella remota ipotesi in cui dovesse scomparire a causa di una
comprensibile evoluzione, cesserebbe di esistere anche la nostra specie.
Il limitare l’abuso di sempre più nuove e sofisticate tecnologie infatti -
che ci consentirebbero di conquistare altri pianeti, di andare a vivere su
altri pianeti - non significa impedire alla ricerca spaziale di beneficiare
dei fondi necessari stanziati dai vari governi per raggiungere quello scopo,
vuol dire piuttosto cambiare priorità favorendo l’evolversi di tutto ciò che
già esiste. E’ su questo che la politica dovrebbe scommettere - o quanto
meno provare a credere.
PROGRESSO E REGRESSO
Da un punto di vista etico progredire e regredire nella nostra continua
ricerca sulla comprensione del discernimento di questi contrari è qualcosa
di essenziale oltre che di complementare, tanto all’utile quanto all’inutile.
A volte per salvare delle vite umane - nei casi in cui un paziente è afflitto
da gravi disturbi psichici - occorre affidarsi a dei regressi ipnotici, e non
soltanto per salvare la sua vita. Altre volte invece bisognerebbe presentare
certe pazienti ai già citati luminari dell’A.S.(Accademia del Sorriso)
i quali non esiterebbero consigliare a quella certa paziente l’ennesimo
intervento di chirurgia estetica, ovviamente dopo quello effettuato dalla
stessa in un’altra clinica per aumentare lo spessore delle labbra, e dopo
quello effettuato per aumentare il volume del seno soprattutto - che per
pura fortuna è scoppiato durante un volo di linea all’interno di un aereo
che evidentemente non era pressurizzato a dovere. Non ci vuole certo una
scienza per capire che gli interventi di chirurgia plastica dovrebbero
limitarsi alla ricostruzione di tessuti che hanno subìto un trattamento post
traumatico. Se invece è la stessa società che impone canoni estetici
discutibili - per usare un eufemismo, in quanto l’estetica nulla ha a che
vedere con simili canoni - allora diventa davvero difficile pensare di usare il
regresso per progredire. Quando poi gli argomenti trattati sono di maggior
impatto psicologico, come la pena capitale o l’eutanasia, sono subito
destinati a diventare oggetto di spettacolarizzazione perché non vengono
mai discussi esclusivamente nelle sedi opportune - così come dovrebbero
essere trattati - fornendo così quei presupposti necessari ad allontanare
l’opinione pubblica dall’avere una sana concezione etica.
“Se per progredire s’intende usare il regresso etico necessario a non
oltrepassare i limiti imposti dalla condizione umana probabilmente ci
salveremo, come specie” direbbe qualche moralista, così come qualche
catastrofista potrebbe asserire che ”a forza di imporre veti di carattere
etico quei pochi che si salveranno si ritroveranno all’età della pietra”.
Sta di fatto che né il catastrofismo né tantomeno il moralismo hanno mai
fatto comprendere il valore di un reale progresso o di un reale regresso,
per contro, per riuscire ad avere una sana concezione etica non è
necessario seguire alcuna dottrina, basta usare del semplice buon senso,
in qualsiasi cosa, al solo scopo di orientare sia le scelte che
i comportamenti. Se è vero che oggi come oggi la vita della stragrande
maggioranza delle persone che compongono questa società vale meno
degli accessori di qualche arrivista, vuol dire che siamo di fronte al più
grande regresso della storia dell’uomo e che, considerato il tutto -
per riuscire a vedere anche soltanto un barlume di quel tanto decantato
progresso che ci viene propinato ogni giorno - dovremo cominciare ad
annientare coloro che ce lo propinano.
La scomparsa dei fatti, l’evidenza cancellata a tutti gli effetti e fatta
passare per calunnia, i politici impresentabili oltre che inguardabili
inudibili e innominabili indagati per dei reati inconcepibili, l’impotenza del
soggetto di fronte le istituzioni, a chi dovrebbe essere utile tutto questo
se non a coloro che ce lo propinano, il progresso? Oltretutto a cosa serve
ricordarlo se tanto domani è come ieri, se non peggio? Invece no, serve.
Eccome. Serve perché è a questo che servono le parole. Poco importa che a
dirle sia un papa o un anonimo pacifista, o che siano state dette da altre
persone in altre epoche usando altre parole con lo stesso significato,
perché il progresso reale di una società si misura dal comportamento
dei suoi membri più autorevoli, e perché - qualora l’autorevolezza venisse
improvvisamente a mancare - non si dovrebbe perdere un solo istante nel
pensare a come sostituirli.
LA COLPA UNIVERSALE
L’obiettivo di queste riflessioni ordinarie mira al sapere e al tempo stesso
nel far sapere quanto possa essere utile o meno comprendere e
riconoscere i contrari menzionati, e, per cercare di raggiungerlo in qualche
modo, è necessario che la misura della consapevolezza diventi una parte
integrante equa nella divulgazione. Tendenzialmente con il senno di poi
è semplice capire e riconoscere gli sbagli che si sono commessi nella vita,
le cose che avremmo potuto se non dovuto evitare : l’inutile insomma.
Ma erano davvero tutti sbagli? Non ci saremmo almeno per una volta
sbagliati nel riconoscere un errore che, sempre con il senno di poi, si è
rivelato un vantaggio, una cosa utile? Se il pentirsi servisse in qualche
modo a infondere nuovamente fiducia in noi stessi per gli errori passati
è innegabile che tutti prima o poi farebbero della contrizione un’immutabile
stile di vita, oltre che il primo insegnamento pedagogico da impartire alle
future generazioni. Ora, che ognuno di noi sappia quando come dove
e perché certi sbagli si rivelino poi vantaggiosi non è un mistero - basta
ricostruirsi un percorso empirico, e a seconda del genere di vita che si è
scelto di condurre, sebbene di fatto siano le scelte incondizionate a guidare
un’esistenza, verranno sempre a galla. Ciò che invece resta in fondo al
nostro immenso oceano emotivo è la colpa, ma non quella colpa che ci
spinge ad ammettere più che altro a noi stessi di aver commesso degli
errori o di essere degli incompetenti nella materia che si sta trattando
(anche perché non è contemplata nel nostro misero vocabolario).
Per capire e riconoscere tale colpa, nominandola, occorre ricordare che
chiunque puntasse il dito contro un colpevole verrebbe a sua volta tacciato
come il solo e unico responsabile dei suoi giudizi oltre che delle sue azioni:
questa è la colpa universale, che identifica la sua origine sia nell’essere che nel nulla.
Cercheremo pertanto di approfondire le ragioni che ci hanno spinto all’analisi di tale origine,
portando alla luce in queste riflessioni tanto il relativo utile quanto il relativo inutile.
Partendo proprio dall’inutile è indubbio che la decisione di pubblicare dei
pensieri che sublimino una colpa così descritta - oltretutto in prima
persona plurale, catalogandoli come riflessioni ordinarie per accentuare
in qualche modo una pseudo valenza ontologica - non sarebbe di alcun
interesse per una moltitudine di persone, e che perciò sarebbe inutile
estenderli proprio in ragione del fatto che approderebbero al nulla più
assoluto. Il nulla circonda l’essere annullandolo nei suoi attimi di
trascendenza più pura, ricordandogli che nulla eravamo e che in fondo
nulla saremo. Se l’origine di questa colpa fosse nel nulla, se si trovasse
nel nulla, si capirebbe per esempio perché il fatto di farlo sapere ad altri
comporti un’identificazione. Lo si capirebbe per deduzione logica, in quanto
si vorrebbe “informare” altri circa la possibilità dell’esistenza di una colpa
universale. Inoltre - secondo quanto appreso da questa unica e lapidaria
descrizione di una colpa definita universale, forse per dare un’idea della
sconfinata responsabilità che un’entità divina avrebbe nell’aver realizzato
l’universo - perché bisognerebbe ricordare pensieri del genere?
E’ implicito che il pensiero - non essendo materiale, non avendo una forma,
essendo invisibile insomma - può estendersi soltanto nell’immaginazione,
ed è altrettanto logico che la stessa immaginazione, immaginando quella
colpa, debba chiedersi in chi e in che cosa oppure per chi e per che cosa
dovrebbe identificarsi. Altro punto fondamentale dell’infinita vacuità oltre
che dell’inutilità insita nella definizione sta nell’averla immaginata come
qualcosa che è sempre esistita, a prescindere dalla cosmogonia o dal
cristianesimo che traspare ad ogni parola permeando di ulteriori
incomprensioni un significato già di per sé inconsistente, e sconfinando
addirittura nell’essere. E’ forse una colpa la nostra esistenza?
Rispondere a quest’ ultima domanda - riferendosi perciò all’utile relativo
all’analisi dell’origine della suddetta colpa - non vuol dire negare l’esistenza
di un nulla, che esiste si in quantità perfino eccessiva, sia nell’universo che
negli individui, e che in questo senso ha dato origine alla colpa. Se fosse
vero che il nulla potesse condizionare la trascendenza - che va ben oltre
ogni cosa oltre che ogni pensiero - non esisterebbe né la colpa, né
tantomeno quelli che pensano che non possa o che non debba esserci
quella colpa, in quanto nulla, né prima né dopo l’essere fu, o mai sarà.
Perché dunque esistono? Perché negano? Perché danno per scontato
l’autenticità di dottrine quali l’esistenzialismo o il determinismo?
Non è forse anche sottinteso, da prima ancora che il “reale” esistesse
oscurando certe verità, che sono le monadi - pur essendo state frutto di
pura immaginazione creatrice non che artefice di un costrutto così solido
da diventare anch’essa scienza, ed essendo fatte sia della stessa identica
forma non che sostanza del pensiero ma non potendosi né dividere
né tantomeno estendere in quanto a sé stanti e al tempo stesso presenti
in ogni creatura vivente - a comporre l’universo nei suoi vari e complessi
ordini e gradi? E quand’anche la sola immaginazione dovesse domandarsi
- secondo la logica, ovviamente perché è “prassi di uso comune porsi
dei simili interrogativi mentre ci si immagina qualcosa” (perché è appunto
“logico”) - in chi o in che cosa questa colpa dovrebbe identificarsi,
oppure per chi o per che cosa, potrebbe mai una qualsiasi articolata ed
esauriente risposta soddisfare le voglie di ciò che per invidia si è
improvvisamente tramutato da sana curiosità in squallida convenienza?
Eppure, se questa colpa è nel nulla, ovvero se la causa della sua origine
proviene dal nulla, che l’ha originata, come può identificarsi anche
nell’essere? Nella Bibbia ebreo cristiana Dio esorta Noè a costruire l’arca
per salvare la specie e ricominciare altrove - ma pur sempre su questo
mondo - tutto daccapo perché riconosce di aver perso il controllo sugli
errori dell’umanità : l’ammissione di colpa è dunque palese, così come è
palese che la stessa colpa sia preesistente all’universo creato, perché
altrimenti non si spiegherebbe la perdita di questo controllo ; non si
spiegherebbe perché se nell’atto di concedere agli uomini la facoltà del
libero arbitrio avesse saputo a priori che gli sbagli si sarebbero ripetuti
all’infinito e che un suo intervento si sarebbe sempre e comunque
dovuto rendere necessario per garantire la sopravvivenza della specie
non avrebbe più consentito al demoniaco di perseverare nei suoi folli
scopi, per questo l’immensa e illimitata responsabilità divina è anche
nell’essere oltre che naturalmente essere nel nulla.
PIANIFICAZIONE CONDIVISA
In un ipotetico elenco delle cose utili e di quelle inutili da realizzarsi il
prima possibile allo scopo di ottimizzare quel che resta del proprio tempo
libero in una giornata feriale - un elenco ideato da aziende con nomi
altisonanti (in vari settori, in genere si tratta di multinazionali) che
praticano il marketing 3.0 per far si che l’individuo, tra le sue molteplici
esigenze, obbedisca anche “spontaneamente” ai suggerimenti contenuti -
la cibernetica gioca un ruolo determinante, perché “costringe” a seguire
dei consigli che all’apparenza sembrano utili ma che in realtà non lo sono
affatto. A differenza dei già più volte citati luminari dell’A.S.(Accademia del
Sorriso) questi veri e propri guru della comunicazione globale - che con
il loro collaudato organico di plus valenze cibernetiche plasmano e
orientano i consumatori verso prodotti sempre più nuovi e “indispensabili”
grazie a tali ditte, che li rappresentano - non si limitano a pubblicare
volumi e a presiedere conferenze su come dover pilotare la propria mente
a fare un buon uso dei servo meccanismi congeniti per compiere le scelte
più opportune che porteranno ad una certa realizzazione personale.
Il loro compito è quello di pianificare dettagliatamente e senza alcun
margine di errore ciò che dovrà essere visto, ascoltato, letto, mangiato,
bevuto, indossato, annusato, toccato e forse perfino respirato nell’avvenire
più prossimo, per poter così trarre il maggior profitto possibile correndo
il rischio di esposizione più basso. Affermare pubblicamente che in
un’azienda in cui i maggiori azionisti decidono di adottare dei sistemi di
trasparenza inequivocabili nei confronti dei consumatori, o degli utenti,
per mascherare in realtà ciò che mai potrebbe essere rivelato - in nessun
caso - sapendo inoltre che l’azienda che si rappresenta è concorrenziale
e che ci autorizza a fare simili affermazioni, è avvilente, è un po’ come
imitare quelle pubblicità che mettono a confronto due forze diametralmente
opposte (una delle quali è mille volte più debole) avvalendosi del noto
slogan “ti piace vincere facile?”. La comunicazione è uno strumento
indispensabile per ogni sorta di strategia, questo però non vuol dire che
per convincere sia necessario enfatizzare un concetto di sintesi relativo
alle proprietà di ciò che si intende vendere o, paradossalmente,
disincentivare i potenziali acquirenti al solo scopo di creare un’inversione
di tendenza mirata a rendere più “trasparente” il prodotto in questione.
Esistono delle parole chiave che periodicamente - a seconda dei vari
e complessi contesti politico economici - tornano in auge apposta per
convincere. Già soltanto questo la dice lunga sul livello qualitativo della
forza di persuasione. Se poi, questi guru della comunicazione globale,
dovessero davvero ideare un simile elenco la situazione non potrebbe che
degenerare, non ci resterebbe insomma che obbedire incondizionatamente
ad ogni singolo impulso proveniente da un’avveniristica sfera interattiva
in grado di controllare addirittura i nostri sogni. Non c’è nulla al mondo
di così pesante di chi non accetta l’innovazione e il cambiamento che ne
consegue - qualcuno potrebbe liberamente obiettare - così come sarebbe
altrettanto grave omettere le cause e gli effetti connessi a quel genere
di innovazione, se per innovazione si intendesse omologare con la più
deprecabile delle leggerezze la maggior parte delle persone obbligandole
a comprare determinati prodotti. Per evitare così di assistere passivamente
all’ennesima forma di capitalismo rivisitato, dove i maggiori esponenti
vengono definiti dei guru per il semplice fatto che riescono a sottrarre
denaro alla collettività con metodi sempre più efficaci rispetto ai semplici
apprendisti o adulatori di questa “ignota e nobile vocazione spirituale”,
non basta coalizzarsi per cercare in qualche modo di ridistribuire i denari
sottratti : non basta perché sia politicamente che economicamente le
coalizioni nascono per impedire il formarsi di dittature o di monopoli che
normalmente hanno delle scadenze a medio termine, e che perciò, anche
nel caso in cui dovessero riuscire nel loro intento, dovrebbero pianificare
delle strategie utopistiche per evitare di diventare agli occhi della
collettività delle nuove dittature possedendo dei nuovi monopoli a destra
e a manca. Per attivarsi con dignità contro questa forma di capitalismo
rivisitato occorre perciò creare le condizioni ideali per una pianificazione
condivisa del suo disfacimento. Boicottare la vendita di un prodotto o di
una serie di prodotti finalizzati a una suddivisione di monopoli - allo
scopo di favorire il commercio e il consumo di altri prodotti, non tanto per
una preferenza quanto per una necessità - deve basarsi su almeno tre
principi fondamentali : primo, ai potenziali acquirenti deve essere
sottoposta una visione concreta dei pericoli cui andrebbero incontro.
Nel caso per esempio di prodotti inerenti alla realtà aumentata - tenendo
conto che fruitori quali militari addestrati a sconfiggere le forze nemiche
con l’ausilio di tale tecnica sono costretti all’uso di quei prodotti e che
perciò sarebbero in ogni caso esclusi da un eventuale “embargo” -
se un ingegnere che progetta edifici dovesse indossare di sua spontanea
volontà degli occhiali che gli consentissero di visualizzare la quantità
esatta di ferro contenuto in un blocco di cemento armato vorrebbe dire
o che gli studi che ha conseguito non hanno titolo oppure che li ha
profumatamente pagati, pertanto, qualora i potenziali acquirenti
non avessero competenze, oppure dovessero per esempio trarre
giovamento dalla perdita, o per meglio dire dall’archiviazione coatta
dei dati personali, è opportuno ricordare loro che prima o poi potrebbero
facilmente diventare dei probabili capri espiatori, concorrendo al loro
stesso fallimento. Secondo, offrire ai potenziali acquirenti sia le condizioni
vantaggiose che quelle svantaggiose causate dall’acquisto, indicizzandole
e confrontandole con i precedenti stili di vita adottati dagli stessi :
sarebbe utile sia nell’evitare di incorrere in ulteriori fraintendimenti
accumulando troppe informazioni nel medesimo istante, e sia nel
ponderare con saggezza un risparmio garantito, giusto per voler restare
in tema di realtà aumentata. In ultimo, diffidare i potenziali acquirenti
dalla costrizione audiovisiva di messaggi promozionali, incentivandoli
con dei bonus periodici al fine di creare un vero e proprio marchio di
fabbrica che si distinguerebbe dagli altri soltanto in ragione del fatto che
invece di apparire come stimolante non fosse che un brand deterrente,
in e per ogni sua molteplice funzione e/o interazione.
SUB ALIENA UMBRA LATENTES
(Quelli che si nascondono all’ombra degli altri)
Perché l’inutile ripetersi dell’utile compia il suo lento ma inarrestabile
percorso sarebbe opportuno che il latino torni ad essere una lingua viva,
parlata e usata per scambiarsi informazioni di vario genere, allo scopo di
rendere la futura comunicazione globale più autorevole e perfino più
interessante da un punto di vista estetico. La maggior parte del clero non
potrà che dissentire di fronte a simili assurde profezie, eppure sarebbe
opportuno, non soltanto per quei politici che leggono discorsi fatti da altri
per dire ciò che mai saprebbero dire, o per quei filosofi che si studiano
interi trattati di metafisica o di ontologia prima di partecipare ad un
qualsiasi confronto televisivo, per non parlare di quelli che fanno
televisione e che ostentano saggezza esclusivamente per far crescere
una triste e monotona adunanza catodica mentre nemmeno sarebbero in
grado di riconoscere un congiuntivo da un imperfetto, oppure di fare una
citazione con cognizione di causa. Sarebbe opportuno anche per noi.
Anzi, per noi sarebbe anche istruttivo, ma non perché ormai siamo in
balia di un’intolleranza cronica nei confronti delle suddette categorie -
talmente in balia che la sola tele presenza o il solo ascolto che proviene
dall’immagine odiosa di quella tele presenza ci urta così tanto che se mai
dovessimo un giorno trovarceli fisicamente di fronte faremo davvero
fatica dal trattenerci a non appoggiare sulle loro “tele” gengive un ferro
da stiro rovente - ma più che altro perché non siamo, o per meglio dire,
non sono ancora riuscito a capire che è soltanto con l’ammissione dei miei
limiti di conoscenza nei confronti di una lingua come il latino che, forse,
sarò in grado di impararla. Da parte nostra però possiamo dire di non
appartenere a quelli che si nascondono all’ombra degli altri, nonostante
siano troppe le lingue che non parliamo e malgrado siano poche le cose
che sappiamo. Ora, a onor del Vero, sarebbe fin troppo semplice -
considerando oltretutto che sono delle riflessioni - riflettere su quanto
appena scritto per elaborare delle teorie filosofiche allo scopo di
“dimostrare” al Lettore che invece non è vero che non sappiamo,
ma che lo ostentiamo deliberatamente per schernirci in qualche modo
risultando così eruditi agli occhi dello stesso : basterebbe studiarsi
qualcosa di esoterico, confrontarlo con ciò che si vorrebbe argomentare,
redigere una tesi più o meno credibile a proposito dell’”impressione” che
si vorrebbe suscitare circa le proprie conoscenze, e sintetizzarla in
termini trasversalmente condivisi. Troppo semplice e troppo comodo anche,
inutile, in una parola. Ciò che in realtà fa di una riflessione qualcosa per
cui sia chiaro a tutti che il pensiero esposto proviene da uno sforzo
intellettuale proprio, sta nel saper riconoscere per esempio quando una
prosa viene interrotta apposta per meditare su cosa e sul perché si sia
scritto il giorno prima sapendo a priori che i concetti scelti per essere
spiegati risulterebbero ridondanti senza una necessaria interruzione,
oppure quando scorre ininterrottamente come un fiume torrenziale
evocando al tempo stesso la gioia e la spensieratezza dei tempi passati,
di quando ancora si facevano delle intense letture tutte d’un fiato dei più
bei capolavori che ci ha offerto la grande letteratura. Perché dunque la
futura comunicazione globale dovrebbe essere più bella e più autorevole
se si tornasse a parlare in latino? Innanzi tutto da un punto di vista
filologico perché potrebbe tranquillamente coincidere con la definitiva
scomparsa di certe ibride mostruosità lessicali - sorte più che altro per
venire incontro a diktat informatici, adattandosi alle esigenze di chi, non
conoscendo a fondo l’inglese, per lavoro ha dovuto conformarsi come
meglio ha potuto (basti pensare allo spanglish o all’anglitaliano) - in
quanto, come tutti i fenomeni linguistici transitori, prima o poi
conoscerebbero la loro decadenza, per cui, fermo restando che lo studio
del latino dovrebbe essere implementato proprio per evitare che sparisca
del tutto, non è detto che in un ipotetico scenario post informatico (ovvero
quando il linguaggio relativo alla comunicazione informatica globale subirà
un inevitabile cambiamento) venga assunto per crittografare informazioni,
con un’attenuante degna dei maestri dell’antico diritto romano, vale a dire
quella di diventare motivo d’orgoglio per la difesa di certe informazioni,
purtroppo però anche con un aggravante molto pericolosa, e cioè quella di
discriminare la maggior parte della collettività, che verrebbe tenuta
all’oscuro da troppe cose sotto gli occhi di tutti. In ogni caso dipenderebbe
sempre da quelli che si nascondono all’ombra degli altri questa ennesima
presa per i fondelli nei nostri confronti. Dal punto di vista politico invece
probabilmente perché - per tutelarsi da una crescita demografica
inarrestabile del popolo cinese, che di certo andrebbe a ricoprire ruoli di
rilievo anche e soprattutto nel panorama sociale europeo costringendo
paesi come l’Italia o la Spagna a incentivare politiche di sostegno per
contrastarne l’ascesa - forse saranno proprio i poteri occulti a decidere
che l’establishment del mondo anglosassone debba orientare la collettività
verso l’uso di questa lingua arcaica perché, dovendo scegliere come
equilibrare le sorti di un’umanità destinata all’epilogo, preferirebbero che
tutti la imparassero per poter decifrare e condividere dei documenti
statali segreti che proverebbero l’esistenza di un insediamento terrestre
su Marte, mentre invece ogni singolo progetto e calcolo effettuato per
installare delle basi spaziali su un altro pianeta sarebbero gelosamente
custoditi con altri codici, la cui decodificazione a posteriori renderebbe
impossibile riconoscerli.
CERCASI TROGLOPARASSITI, NO PERDITEMPO
Strada facendo abbiamo avuto modo di assodare che riconoscere l’utile
dall’inutile, e viceversa, non è una cosa semplice, anche se a volte sembra
proprio il contrario. L’intrattenimento per esempio, in particolare quello
riferito alla musica, all’apparenza risulta essere molto semplice :
l’atto di cambiare una frequenza radiofonica quando la musica che viene
trasmessa non è di nostro gradimento non ha bisogno di alcuna
dimostrazione per far vedere che ciò che stavamo ascoltando l’attimo prima
era inutile. Le cose però si complicano quando - per una sorta di soglia di
auto masochismo che ci impone di resistere almeno cinque secondi
all’inevitabile inquinamento acustico - la stessa musica, che di solito si ha
la tendenza a detestarla, diventa la colonna sonora esistenziale delle
persone a noi più care. La maggior parte dei casi di separazione o di
divorzio sono causate da queste divergenze : non a caso di recente è stato
anche fondato un comitato per continuare ad avere il diritto di ascoltare
quegli indispensabili programmi radiofonici (ormai rarissimi !) dove viene
ampiamente spiegata (secondo studi americani, di solito effettuati in
Massachusset) l’origine, la causa e ovviamente l’effetto che i tormentoni
musicali hanno sulle coppie etero, e non. Nei casi più estremi - vale a dire
quando il nulla musicale propinato da certi trogloparassiti che piacciono
solo a lui (o a lei) è contrastato dal genio artistico di qualche grande
musicista che piace solo a lei (o a lui) - l’uxoricidio è visto ancora come il
male minore in grado di alleviare le pene di uno dei due coniugi.
Se è vero che nulla esiste al mondo di più universalmente capito
e riconosciuto come la musica, allora perché questi trogloparassiti si
riprodurrebbero a oltranza e senza sosta, per diventare dei testimoni
chiave di qualche matrimonialista alle prime armi ? Da un punto di vista
puramente oggettivo combattere per la loro eliminazione è una lotta impari.
Forse bisognerebbe partecipare sotto mentite spoglie a qualche talent
show e tentare di vincere sbaragliando la concorrenza - probabilmente
però si correrebbe un rischio ben più grave : andare al supermercato a
fare la spesa dopo un successo del genere aprirebbe scenari davvero
inimmaginabili. L’inconfondibile timbro vocale da isterico rincoglionito -
indipendentemente dal fatto che appartenga al genere maschile o a quello
femminile - la predisposizione congenita al prestarsi all’interpretazione di
testi che più che altro andrebbero bene per dei fanciulli che non devono
però superare i tre anni al massimo e chiaramente urlati su musiche a dir
poco fastidiose, ma soprattutto i tratti somatici, irritanti, tipici di chi è nato
e cresciuto con un unico obiettivo - ovvero quello di vivere alle spalle degli
altri senza sapere nulla sulla vita pensando di sapere tutto - a grandi linee
insomma, questa è la descrizione del trogloparassita tipo.
Ora, è vero che il solo fatto di chiedersi a che cosa in realtà dovrebbero
servire questi formidabili talenti musicali per qualcuno potrebbe anche
voler dire ricordarsi le gesta di qualche folle malintenzionato che all’apice
delle sue elucubrazioni spara all’impazzata su una folla inerme e che,
senza tanti giri di parole, a questo qualcuno potrebbe anche venir voglia di
emulare il folle malintenzionato qualora si trovasse di fronte una folla
inerme di soli trogloparassiti, è però anche vero che senza il loro semplice
e soprattutto mai banale stare al mondo verrebbero meno un sacco di cose,
a partire proprio dal tono canzonatorio e conviviale con cui si è soliti
descriverli. In sostanza, immaginarsi un mondo senza trogloparassiti
equivarrebbe a ridursi a guardare cinepanettoni fingendo di divertirsi,
il che, tutto sommato, significa che a qualcosa servono sul serio.
RESA INCONDIZIONATA
Pensare che il pensiero debba trovare un’alternativa a una comunicazione
verbale invadente - praticata purtroppo da tutti quelli che avrebbero capito
che per esprimere un concetto non si possa fare a meno di usare il triplo
delle parole consentite per esempio da chi quel concetto lo ha capito prima
ancora che venga espresso, giusto per poter vantarsi di essere dei veri
millantatori professionisti, anche perché, quelli che ci credono mentre li
guardano e li ascoltano non potranno che imitarli - è come sperare che
Pulcinella confidi il suo segreto alla scimmietta ceca sorda e muta.
La validità di un’alternativa come questa potrebbe essere paragonata
all’efficacia di un’invenzione come quella di spianare il Passo del Turchino
per consentire il ricircolo d’aria e far sparire definitivamente la nebbia in
Val Padana, propinata da un luminare, anzi, da il Luminare di mezz’età che
nei lontanissimi anni ’80 propose questa genialata partecipando a una
nota trasmissione televisiva dell’epoca (chi ha una certa età e vive da
queste parti non potrebbe non ricordarselo). Ora - fermo restando che la
nuova frontiera della comunicazione potrebbe un giorno anche diventare
una pantomima globale, pantomima 6.0 putacaso - se è vero che Dio volle
apposta che gli uomini si confondessero in quel di Babilonia perché la
torre che stavano costruendo stava diventando un po’ troppo alta, perché
invece di farli esprimere chi in swahili e chi in aramaico non fece in modo
che al solo incrociare dei loro sguardi avrebbero dovuto fargli capire,
a gesti, che era lui che doveva pensarci prima e tirare giù una scala?
Immaginarsi anche solo per un attimo che gli uomini di allora fossero
riusciti a presenziare uno spazio divino indurrebbe a credere che se Dio
se ne fosse fatta una ragione avrebbe risparmiato molto tempo per far
capire agli uomini di oggi che l’arrendersi al proprio status quo, tutto
sommato, non è poi così male. Arrendersi, a volte, fa bene al cuore oltre
che all’anima. C’è poi anche un altro aspetto dell’arrendersi che bisogna considerare :
ovvero, ricordarsi che il voler essere auto ironici a tutti i costi non serve altro che
a diventare ridicoli agli occhi del prossimo. Se uno lo sapesse eviterebbe di fare delle brutte
figure, ma visto che nella maggior parte dei casi - come del resto anche
in questo - si denota quasi sempre una predisposizione trasversale al non
arrendersi, anzi, a continuare una smodata ricerca virtuosa delle parole
che indurrebbero a capire che è proprio la “spontaneità” che ci spinge
verso l’auto ironia, tanto varrebbe dichiarare apertamente che nel caso
questa faccenda dell’auto ironia dovesse diventare una questione di Stato
e ognuno di noi, a turno, fosse costretto a dire la sua, si accetterebbero
esclusivamente dei suggerimenti mirati a prendere in giro gli altri.
Però (c’è sempre un però quando una riflessione totale prende vita e non
si dà pace tornando continuamente sulle riflessioni parziali che la
compongono fino a che non trova il punto esatto dell’inevitabile
contraddizione) se è vero che questa cosa dell’arrendersi a volte fa
bene anche al cuore oltre che all’anima, come la mettiamo con il fatto
che non bisognerebbe arrendersi al pensiero razionale per non restare
confinati in un limite di pura rassegnazione? Se poi (testuale) “questo
limite è pura illusione, e l’illusione non è altro che un’atavica espressione
del pensiero irrazionale che ha bisogno di trascendere il pensiero stesso
per essere riconosciuta” perché, invece di non prendersi troppo sul serio,
si è voluto deliberatamente colpire - in tono canzonatorio beninteso -
quei poveri ma pur sempre validi esponenti dell’A.S. (Accademia del
Sorriso) ? In fondo la loro scuola di pensiero è basata su un calcolo
matematico, oltre che sull’uso del pensiero razionale in modo positivo :
infatti, non a caso, quando si ricordano di avere un’immagine vincente
del proprio io - ma soprattutto quando convincono gli altri, i quali
ricoprono ruoli di enorme responsabilità, ad avercela - chissà perché il
numero dei perdenti si moltiplica con precisione disarmante.
Per correttezza nei loro confronti si sarebbe dovuto almeno avvisarli
circa quest’infame pratica allusiva di classificarli come se fossero degli
inetti, come se dalla responsabilità delle loro azioni dovessero dipendere
le sorti dell’umanità ! Bastava inviare un s.m.s. o una e. mail con su scritto
“guardate che non è che ce l’abbiamo con voi, è soltanto che con qualcuno
dovevamo pur prendercela” e finiva tutto lì, anche perché loro sarebbero
senz’altro stati capaci, se soltanto lo avessero voluto, di dimostrare con
mille e più tesi che il pensiero irrazionale è pericoloso e che fa male alla
salute. Invece no, invece di arrendersi all’evidenza della loro indiscussa
superiorità intellettuale, si è voluto infierire, rigirare il coltello nella piaga
a scapito della nostra stessa incolumità, non facendo altro che favorire
l’espandersi del loro inequivocabile pensiero.
L’AMORE INTERPRETATO
Quando la disillusione si confronta con l’illusione trionfa, senza mezzi
termini, ma l’attimo in cui deve fare i conti con le potenzialità espresse
dalla più ingannevole delle condizioni è destinata a soccombere :
l’amore ne è la prova inconfutabile, che va sempre al di là di certi aforismi.
Poter parlare d’amore, così, in assenza della persona amata ma di fronte
a tutte (e a tutti) le ipotetiche amanti immaginarie, in un certo senso ispira
fiducia, è un po’ come se la scelta dell’argomento potesse realizzare gli
obiettivi preposti in queste riflessioni - ovvero comprendere e saper
riconoscere dei contrari menzionati fino alla nausea. Intanto è utile
ricordare che è solo quando si comincia a detestare la propria immagine,
a provare cioè nausea verso se stessi che si capisce - anche se in maniera
ancora marginale - qualcosa sull’amore. Si capisce perché risulta chiaro
come la luce del sole che senza l’amore di qualcuno che ci sta vicino
potremo avere anche la faccia più bella del mondo, ma che in fondo a
nessuno piacerà se al nostro fianco non ci sarà anima viva a dimostrare
che siamo capaci di amare. Ricordare questo fa bene semplicemente
perché in un rapporto sentimentale la coscienza - a differenza della
percezione - nella maggior parte dei casi tende a valorizzare soltanto
comportamenti esemplari, mentre invece, per tutte quelle volte in cui
viene meno l’autocontrollo, generando l’invettiva, è l’oblio a farla da
padrone. In amore conta poco la coscienza, per non parlare dell’auto
coscienza, di hegeliana memoria : il giorno stesso in cui a qualcuno
dovesse venire in mente di stilare un rapporto fenomenologico sulle
emozioni provocate dall’amore, ciao Nineta! (“ciao Nineta” è una vecchia
espressione piemontese, usata come una sorta di interiezione per dire
che in fondo se qualcuno facesse quella determinata cosa in quel
determinato momento tutto andrebbe perduto) Ciò che conta è la
percezione, percezione intesa come contenitore di sensazioni, in quanto
conterebbe davvero poco se fosse intesa solo come referente della
coscienza stessa. Tanto per cominciare la prima cosa da guardare in
un contenitore del genere è la capienza. Più il contenitore è grande e più
ovviamente c’è spazio per riuscire a contenere le sensazioni più diverse
d’amore. I bambini per esempio - non tutti, è chiaro - riescono meglio di
chiunque altro a quantificare l’amore che provano per i loro cari tendendo
entrambe le braccia fino al limite dell’estensione per qualche secondo a
occhi chiusi, e questo la dice lunga su come l’infinito possa essere
contenuto tra due arti superiori la cui lunghezza, sommata, non supera
i novanta centimetri. Avere la sensazione di possedere un immenso
contenitore percettivo, capace di protrarre il più a lungo possibile una
virtù fin troppo effimera per essere considerata virtù, quale l’empatia,
può senza dubbio causare dei seri problemi (di ordine economico
soprattutto) all’esistenza di un individuo, ma al tempo stesso è in grado
di svelare allo stesso individuo il segreto della ricchezza più grande che
esiste in Natura. L’amore, per essere amore, deve essere interpretato
in ogni suo angelico o demoniaco manifestarsi. Ora, se un uomo avesse
questa sensazione, e fosse venuto a conoscenza di una rivelazione ultra
terrena - che gli consentisse di avere percezioni fuori dal comune, come
comporre dei versi poetici e imprimerseli nella memoria senza aver
bisogno di scriverli, oppure come comunicare telepaticamente con un
altro essere del suo stesso livello spirituale - come si comporterebbe nei
confronti di uno psicopatico, il quale, oltre ad avergli barbaramente ucciso
la moglie e il suo unico figlio, gli avesse anche “confidato” che lo avrebbe
fatto soltanto per vedere “dall’alto della sua strafottenza” la sua
reazione? Dovesse mai riuscire a perdonarlo riuscirebbe ancora a
guardarsi allo specchio? E poi a chi e a cosa e soprattutto per quanto
tempo servirebbe l’amore/perdono in un caso simile (così come del resto
in altri innumerevoli svariati casi) ? Innanzi tutto - ovvero sia prima di
qualsiasi riflessione indotta dalla complessità di una simile domanda -
va detto che la parte migliore in un uomo può trovarsi esclusivamente
nell’individuo il quale, costretto suo malgrado a subire dolori di ogni sorta
e grado riesca a non vendicarsi causando altro dolore ad altri individui.
Questo andava detto proprio perché la pura e semplice vendetta è inutile,
perché serve soltanto a soddisfare un istinto. Quando però si tratta di un
istinto primordiale - o per meglio dire quando il dolore subito è stato
provocato dal Male - il Male che si è fatto e che continuerà a farsi uomo
fino al fatidico momento in cui il ritorno alle origini lo condurrà dove non
potrà nuocere che a se stesso - bisogna farsi coraggio ed eliminarlo senza
alcun ripensamento. Che cos’è che fa la differenza tra un istinto e un
istinto primordiale? Il fatto di credere di essere onnipotenti o di somigliare
in qualche modo a delle divinità, nonostante la consapevolezza di
appartenere come tutti i comuni mortali a un genere in via d’estinzione,
contribuisce al saper distinguere l’obbedienza imposta dai suddetti istinti,
per esempio. Paradossalmente dunque, uccidere certi individui aiuta
a migliorare la società, direbbe un prevedibile avvocato del diavolo in tono
provocatorio - e forse si riuscirebbe finalmente a capire perché c’è così
tanto bisogno d’amore! La triste realtà invece è che non ci si sopporta più.
L’intolleranza è arrivata a un livello tale che ognuno di noi, a modo suo,
è responsabile del fallimento dei rapporti interpersonali, e che proprio per
questa apparente semplice ragione il Male è entrato di diritto e con un
certo impeto anche nel quotidiano. Il problema è che non esistono rimedi,
o meglio, esisterebbero, soltanto che come al solito - e cioè quando
problemi analoghi diventano irrisolvibili a causa di troppa gente che
pensa di avere delle soluzioni - è una questione di maggioranza.
In un ipotetico appello rivolto a tutte quelle persone che hanno buon senso
e che sanno di avere l’obbligo di far riconoscere l’inutile dall’utile,
e viceversa, a tutte quelle persone che non ce l’hanno, specie in ambito
familiare, la speranza che un giorno il Bene possa recuperare il terreno
perduto sul Male è reale, concreta, proprio perché in fondo, ancora una
volta paradossalmente, quando i pensieri della minoranza vengono
emulati dalla maggioranza - vale a dire quando quelli che rappresentano
la maggior parte della maggioranza, sapendo di essere prossimi al
trapasso, cercano con tutte le loro forze quel perdono/amore che mai in
vita loro sarebbero stati capaci di dare - avviene quasi sempre questa
logica metamorfosi. L’amore è tutto, chiunque lo sa. A questo mondo
è impossibile che esistano ancora persone che non lo sappiano, visto che
al limite esistono persone che fingono di non saperlo : di solito o per
evitare di affrontare l’argomento - il più delle volte ritenuto inconcludente -
oppure per limitarsi a dire se e quanto possa o meno essere utile
tollerarlo nella vita di tutti i giorni - il che significherebbe prendere in
giro se stessi, prima che gli altri. A proposito degli altri - per quanto
concerne l’orientamento sessuale - in primo luogo è necessario dire che
la regolamentazione dei diritti civili che ogni singola coppia dovrebbe avere
deve essere equiparata, se non altro per una questione di pari opportunità -
senza voler fare alcuna digressione politica - e in secondo luogo che
bisogna una volta per tutte darsi da fare tutti insieme per far passare
come decreto una legge che stabilisca senza tanti commi che avere dei
pregiudizi è reato ! Si potrebbe altresì aggiungere che per semplificare
questa fattibile proposta - quella del reato di pregiudizio - basterebbe
convincere tutti i parlamentari sul fatto che nessuno li ha veramente,
ma sarebbe come approvare l’abolizione dello stesso Parlamento dopo una
mozione di sfiducia sbrigativa e nella fattispecie non pilotata. Trionferebbe
l’amore/politico in buona sostanza. Per comprendere a fondo l’amore
dunque bisognerebbe interpretarlo, come se si dovesse interpretare la
fenice mentre sta per risorgere sapendo che si accoppierà ancora una
volta con il drago ? Bisognerebbe crederci insomma ? Vero è che le
interpretazioni dell’amore sono imprevedibili e infinite, eppure in fondo
non sono che stati d’animo, ragioni di vita che - indipendentemente dalle
abitudini più diverse - possono realmente influire sull’utilità
o sull’inutilità dell’essere felici.