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L'inutile ripetersi dell'utile


RIFLESSIONI ORDINARIE

di Sormani

INDICE ANALITICO

  • I servi non servono
  • L’importanza del pensiero irrazionale
  • Se il riso sulla bocca degli stolti fosse incontenibile invece che abbondante
    si correrebbe il rischio di diventare dei super eroi, nella maggior parte dei casi
  • Arimane
  • La differenza
  • Pregresso e regresso
  • La colpa universale
  • Pianificazione condivisa
  • Sub aliena umbra latentes (quelli che si nascondono all’ombra degli altri)
  • Resa incondizionata
  • Cercasi trogloparassiti, no perditempo
  • L’amore interpretato
  • I SERVI NON SERVONO

    Che cosa è utile e che cosa non lo è bene o male si sa, bisogna però poi vedere perché tutto questo inutile e tutto questo utile - che progressivamente ci siamo abituati ad accumulare durante le nostre brevi vite tramite un continuo loro congiungersi, e sebbene crescano di pari passo ma in direzioni opposte rispetto all’ignoto percorso esistenziale - non riescano quasi mai a riconoscersi con una scelta adeguata. Se ciò che per principio si riteneva fosse fondamentale, e perciò utile, all’età di diciassette anni - poniamo un valore assoluto quale la libertà di pensiero - con il passare del tempo e delle conoscenze assimilate nel tempo si potesse ragionevolmente ritenere superfluo, e perciò inutile, all’età di quarantasette anni - a riguardo dello stesso valore - perché all’approssimarsi dell’ipotetica fine di un’esistenza biologica (alla tenera età di centosei anni per esempio) non si dovrebbe ritenere che la libertà di pensiero possa essere fonte di potenza creatrice oltre che di longevità? La stessa identica cosa - cosa intesa nel senso più lato del termine - ripetuta nei secoli per salvaguardare il retaggio universale dei popoli sulle nostre origini, servirebbe a nulla se non fosse continuamente elaborata e riadattata alle esigenze dei contemporanei, e nonostante questa banalità risulti tale agli stessi è necessario ricordarla per riconoscere che potrebbe ancora servire. Così come del resto è utile ricordare che nell’attuale sistema socioeconomico il marketing 3.0 gioca un ruolo determinante, sia per il merito che per il metodo di orientare i consumi attraverso studi di settore basati su neuroscienze che invogliano il consumatore ad acquistare un prodotto senza nemmeno dover chiedere allo stesso se è di suo gradimento, propinando strategie senza dubbio rivoluzionarie ma che al tempo stesso vengono addirittura definite “umaniste”. Rispetto alla vecchia pubblicità, quella considerata di massa, è più incisivo, indubbiamente più efficace, ma a che cosa dovrebbe servire in realtà se non ad omologare altre “nuove” masse di individui pronti a consumare tutto ciò che quelle stesse masse ritenevano che non dovesse più servire fino a qualche anno prima? In questo caso per esempio, per riuscire a scegliere - e già in questo senso il verbo implica una serie articolata di pensieri che sarebbe improbabile determinare con certezza le ragioni di una scelta, o di una decisione - se poteva o meno essere utile dire quanto appena detto a proposito del marketing 3.0, prima di porre la domanda occorreva anche ricordare “l’aspetto condivisibile per antonomasia” che questa suprema forma di propaganda ha saputo imporre sul mercato : ovvero il fatto inequivocabile di generare minoranze senza aver l’obbligo di prodigarsi in consigli per gli acquisti o in campagne elettorali prestabilite. Eppure per riconoscersi, congiungendosi di pari passo giorno dopo giorno nelle opposte direzioni, l’utile ha bisogno dell’inutile così l’inutile necessita dell’utile. Un rapporto di coalescenza è dunque vano e al tempo stesso indispensabile, alla stregua dell’azione e della non azione, della trascendenza e dell’immanenza, dell’eterno ritorno dell’identico e della continua metamorfosi geologica che caratterizza le varie ere che si susseguono. Ciò di cui l’umanità ha bisogno non deve necessariamente essere detto o scritto da nessuna parte, servono solo individui più responsabili e soprattutto più indipendenti. Paradossalmente invece un esercito sterminato di servi di ogni età, razza, sesso, religione e professione continuano a svolgere il loro inutile compito senza assumersi la benché minima responsabilità - nonostante l’importanza dei ruoli che ricoprono - tornando utili soltanto a quell’occulta cerchia di oligarchi che imperversa da troppo tempo, condizionando la vita della maggioranza delle persone. Se occorre però ripetere simili visioni per cercare di salvare il nostro patrimonio mnemonico relativo a una materia come l’identità, visto e considerato che l’argomento interessa tutti, è bene ricordare che i pur encomiabili sforzi compiuti fino ad oggi sono stati vani, forse perché a forza di dimostrarli, di confutarli e di ripetere letteralmente per secoli le rispettive dimostrazioni e confutazioni si è centuplicata in modo spontaneo e naturale la voglia di dimostrare e di confutare teorie e concetti a tale proposito, o forse perché da un punto di vista più semplice (e utile) sarebbe anche ora di fare i nomi e i cognomi di questi poveri e infelici oligarchi il cui unico scopo - non che dedizione - è, e d’altra parte non potrebbe che continuare a essere la filantropia. La cosa buffa è che un discreto numero di questi servi si arrovella le meningi giorno per giorno pur di redigere un editoriale “pungente” - carico di quella “giusta ironia” che dovrebbe far riflettere e sensibilizzare l’opinione pubblica su argomenti riguardanti l’individuo in prima persona, ma che purtroppo invece risulta essere utile solo alla ridicola concezione che quando un datore di lavoro fa una battuta, indipendentemente dal livello di sarcasmo o di ironia contenuta, un dipendente debba per forza di cose recitare la parte dello spettatore che si sta divertendo. E pensare che nella vastità degli spazi annessi all’immenso vaso di Pandora che appartiene a questi servi, certi giornalisti sono ancora considerati dei falchi. Ora, è vero che se immaginassimo le colombe le battute si sprecherebbero a iosa - non soltanto per certi giornalisti - di conseguenza, a onor del Vero, l’universale dilemma su cosa è utile e cosa non lo è merita un particolare approfondimento.

    L’IMPORTANZA DEL PENSIERO IRRAZIONALE

    Se andiamo avanti di questo passo chissà dove andremo a finire è una di quelle domande ricorrenti, oltre che scontate, che di solito ci poniamo quando le cose iniziano a peggiorare più o meno per tutti. Incertezze, ansie, incomprensioni, paure, sono tutti stati d’animo provati dal nostro essere razionale che non può fare a meno di osservare il mondo circostante. L’ennesimo “scienziato” dell’inconscio che non ha più voglia di occuparsi del suo vero lavoro e che pur di dire qualcosa che pensa di sapere ha deciso di rendersi ridicolo - questo in linea di massima dovrebbe essere ciò che passa per la testa dell’individuo medio nel leggere queste poche righe: è logico, non potrebbe essere altrimenti, anzi, immaginare il contrario aprirebbe scenari inquietanti perché vorrebbe dire che il soggetto in questione è cresciuto a livello cognitivo, e che perciò potrebbe sfalsare i parametri relativi alla sua stessa classificazione. In realtà il pensare avendo dei solidi pregiudizi radicati nella coscienza è un sistema di auto difesa ben noto agli psicanalisti, i quali, per sondare l’insondabile, hanno bisogno di sapere ciò che viene rimosso dalla coscienza. E’ dunque lecito supporre che il rimosso sia una prerogativa essenziale per guarire dal cosiddetto mal di vivere? Supponiamo che un paziente che ha deciso di sua spontanea volontà di sottoporsi ad analisi per cercare di smettere di bere superalcolici debba descrivere a scopo terapeutico, seduta dopo seduta, tutte le fasi inerenti alla sua dipendenza, e che l’analista - rendendosi subito conto che le cause sono di carattere affettivo - invece di spronarlo a prendere la vita con più entusiasmo, magari con più ironia, convincendolo prima a ridurre le dosi, per poi farlo smettere del tutto, faccia leva proprio sulle sue carenze affettive per prolungare le sedute prescrivendogli farmaci omeopatici o convenzionali. In tal caso, secondo ovvie deduzioni, l’evidenza del rimosso del paziente, che contribuirà a soddisfare l’avidità del medico che se ne approfitta, non farà che aggravare la condizione del primo e stimolare ulteriormente l’autostima nel secondo. Mentre in caso contrario - ovvero tramite una cura efficace e professionale - il rimosso del paziente verrà usato dallo stesso per risanare dei rapporti familiari compromessi, forse, o quanto meno nei casi più fortunati, e dallo psicanalista come nuovo materiale di approfondimento. In sintesi, come si combatte il mal di vivere sapendo che la domanda è senza risposta? Non è forse vero che chi avesse la presunzione di anche soltanto sognarsi di poterne dare mezza, o per dire anche solo la metà di quella mezza attraverso eccessive auto celebrazioni raccolte in “opere monumentali” verrebbe internato in una cella d’isolamento in manicomio perché con le sue risposte potrebbe anche far rinsavire gli altri, che evitando di fare un panegirico direbbero tutto sommato le stesse cose? Quando si invecchia pensando che il tempo passato non ritorna, ovvero quando la disillusione e il rammarico per gli scopi che non si sono riusciti a realizzare durante il corso dell’esistenza sono ovviamente diventati dei capisaldi razionali nella propria visione del mondo, si accettano le cose per quelle che sono, vale a dire che ci si pone un limite entro cui la rassegnazione resta confinata. Questo limite è da considerarsi pura illusione. Che cosa ci dovrebbe essere infatti entro questo limite se non la consapevolezza che si passerà il resto dei nostri giorni in preda a una deplorevole, se non la più deplorevole delle illusioni? L’illusione non è altro che un’atavica espressione del pensiero irrazionale che ha bisogno di trascendere il pensiero stesso per essere riconosciuta. Approfondire il significato di una simile affermazione però non vuol dire ripetere come un mantra i fondamentali concetti filosofici che ci hanno tramandato le diverse culture di ogni epoca, vuol dire piuttosto arrendersi all’idea che non c’è modo di trascendere il pensiero umano se non attraverso una meditazione immanente al divino. Dio ha dimostrato nel corso della storia dell’umanità che il suo interesse per gli atei è a volte superiore rispetto a quelli che hanno fede nelle varie forme di religioni esistenti - forse perché vuole limitarsi ad osservare fino a che punto li condurrebbero i loro limiti, o forse perché conosce fin troppo bene il demoniaco per non limitarsi a fare la stessa cosa. Resta il fatto che per trascendere il divino non esistono alternative, l’assurda condizione della nostra breve esistenza non può che confermarlo. Quando muore qualcuno di famiglia, o comunque una persona a noi molto cara, è la mancanza, il vuoto incolmabile che quella persona ha creato con la sua sola presenza a dominare i nostri sentimenti, eppure al tempo stesso non ci rassegniamo all’idea che quella persona non ci sia più, perché nonostante la sua assenza - che in ogni caso attenuerà con il tempo il potere di quei sentimenti - i ricordi legati a un dialogo sincero e conviviale continueranno ad emergere anche se quella persona era di carattere diametralmente opposto al nostro, incline addirittura a disprezzare la vita. D’altro canto, se così non fosse, che cosa dovrebbe emergere in coscienza se non un oblio condizionato e consolidato dal palese costrutto del carattere di quella persona, così ostile al solo fatto di “dover” esistere? Secondo alcuni il fatto di usare il pensiero razionale in modo positivo, ovvero il ricordarsi di avere un’immagine del proprio io che può essere modificata per renderci felici a qualsiasi età e in qualsiasi condizione, è l’unica chiave in grado di aprire le porte del successo - successo inteso come risultato, non come popolarità - all’individuo che vuole conseguirlo. Se fosse così allora dovremo essere tutti felici, dimenticarci - proprio da un punto di vista razionale - che esistono altre persone che soffrono, che stanno male e che molto probabilmente mai avranno quella speranza di poter stare meglio a causa di altre persone che pensano solo in modo positivo. Il fatto che si sia fondata su queste basi una scuola di pensiero - o sedicente tale - implica una serie di riflessioni che vale la pena ricordare. Da un punto di vista razionale infatti sarebbe logico dimostrare il contrario: verrebbe spontaneo e naturale a chiunque dovesse sostenere delle tesi a favore di questa scuola di pensiero iniziare a giustificare l’atteggiamento mentale di chi vuole “cambiare” la sua identità pensando possa farcela da solo, per poi convincerlo a rafforzare la sua autostima con pratici esercizi intellettuali da seguire giorno per giorno, e finire poi per creare quel genere di individuo che crede di aver capito tutto nella vita traendo l’inevitabile conclusione che solo quelli che non la pensano così meritano di essere considerati dei falliti. Secondo questi luminari dell’A.S.* quindi (l’Accademia del Sorriso,* sorriso costantemente stampato in faccia per dimostrare di poter dispensare pillole di saggezza senza nemmeno sforzarsi di dire una parola) con la sola forza dell’auto convinzione a usare positivamente il pensiero razionale - come potrebbe essere altrimenti, visto che i “pratici esercizi intellettuali” consigliati durerebbero un bel po’ e che a forza di ripeterselo lo capirebbero perfino le scimmie - e a seconda del grado e del genere di competenze assimilate, ciascun individuo avrebbe la facoltà di controllare sia la propria sfera emotiva che quella professionale. Sarebbe un po’ come se un neurologo per esempio, di indubbie capacità, prima di presiedere una conferenza circa una sensazionale scoperta relativa al sistema nervoso avesse messo in pratica le suddette teorie, e che invece di limitarsi a dimostrare i concetti della sua scoperta si fosse montato la testa a tal punto da pensare che il mondo intero dovrà in qualche modo dipendere da lui. Con ciò non si vuole certo demonizzare il pensiero razionale, ci mancherebbe, anzi, dovrebbe essere la linea di pensiero guida per quei venditori che pullulano di fumo una cucina onnicomprensiva dove ormai pare che l’arrosto sia diventato una rarità, questo si. Oggi come oggi immaginare di poter dire delle cose che non sono ancora state dette in fondo equivale a pensare che l’illuminismo non sia mai esistito - e questo non perché lo scopo dell’illuminismo era quello di proporsi di debellare l’ignoranza con un’analisi razionale applicata all’esperienza, ma più che altro perché con l’esperienza si è potuto constatare che sono troppi quelli che non sanno neanche più cosa sia l’illuminismo. In verità ciò che conta nel pensiero irrazionale - a prescindere da falsi preconcetti e da corrette interpretazioni che in molti casi si danno a tale proposito - è il darsi, è quell’offrirsi spassionatamente agli altri in ciò che si fa con passione, senza un particolare obiettivo da raggiungere e senza soprattutto dover dimostrare niente a nessuno, sia che si tratti di lavoro, sia che si tratti della stessa infame o gloriosa esistenza.

    SE IL RISO SULLA BOCCA DEGLI STOLTI FOSSE INCONTENIBILE INVECE CHE ABBONDANTE SI CORREREBBE IL RISCHIO DI DIVENTARE DEI SUPEREROI, NELLA MAGGIOR PARTE DEI CASI

    Saper ridere di se stessi è uno stato mentale indispensabile per sopravvivere alle drammatiche e a volte tragiche storie che un indescrivibile cortometraggio - quale è la vita, ideato e diretto da uno sceneggiatore senza volto - ci racconta. Figuriamoci che cosa bisognerebbe inventare per potersi salvare dalle trame e dai complotti replicati fino alla nausea da certi registi che ci mettono pure la faccia per promuovere i loro indimenticabili capolavori! Ridere senza un apparente motivo in situazioni di per sé grottesche allo scopo di provocare reazioni inconsulte per divertirsi, è una pratica consueta, che coinvolge chiunque sappia stare al gioco di un umorismo cinico ma inevitabile per capire certi strani comportamenti. L’aneddoto seguente è tratto dalla vita di un commerciante di fiori, Ludovico, il quale venne invitato a cena in casa di un suo vecchio amico di adolescenza, Paolo, per una rimpatriata. Paolo è un sedicente pirata informatico, di professione fa l’operatore telefonico - una “copertura” non proprio adeguata, ma sufficientemente stabile. Erano passati diversi anni dall’ultima volta che si erano incontrati. Entrambi sulla cinquantina avevano cambiato fisionomia oltre che le rispettive mogli, le quali godono di una buona posizione sociale essendo la prima - Emma, quella del commerciante di fiori - una criminologa, e la seconda, Greta, il primo cittadino del comune dove tutt’ora risiedono. Dopo i convenevoli - non appena trovarono il tempo di appartarsi - i due vecchi amici si scambiarono “come da copione” parte di ciò che il ricordo permise loro di raccontarsi circa le reciproche esperienze, e venendosi a trovare a discutere di un efferato delitto avvenuto proprio in quei giorni nei paraggi - un delitto commesso da due delinquenti con il solo folle pretesto di voler provare la sensazione di uccidere e fare a pezzi il cadavere di un perfetto sconosciuto risvegliandosi vicino a quel che restava del corpo il mattino seguente - a Ludovico venne in mente di mettere alla prova l’indole del ritrovato Paolo, confidandogli che sua moglie Emma era inadatta al ruolo sociale che ricopriva in Polizia e che glielo avrebbe dimostrato nel corso della serata. A tavola la conversazione - in gran parte monopolizzata da Greta, che non la finiva più di elencare le emergenze legate ai problemi burocratici della sua amministrazione ma che al tempo stesso dava sfoggio della sua originale preparazione in materia mostrando continuamente un personale vademecum in cui esibiva perfino con orgoglio l’iter delle norme che seguiva per cercare di far rispettare le vigenti leggi - fu sostenuta da Paolo con smodata ammirazione, quasi a voler dimostrare al suo vecchio amico che sua moglie invece si che era una che sapeva il fatto suo, tant’è che gli sguardi d’intesa tra Emma e Ludovico (compreso qualche gesto che indusse Emma a capire che Paolo fosse un “guru” dell’informatica) passarono inosservati. Quando Emma iniziò a parlare del fattaccio dunque, Ludovico scoppiò improvvisamente a ridere, e più lui rideva - incrociando lo sguardo di Paolo - più non riuscivano a smettere, provocando il comprensibile imbarazzo di Greta e il ben celato gesto di stizza da parte di Emma, la quale pretese immediate scuse e chiarimenti. Il fatto che Emma evocasse con i suoi modi quelli di una professoressa che Paolo e Ludovico avevano in comune - il pretesto di Ludovico - sulle prime giustificò l’offesa, ma la seconda occasione - quella in cui il finto alterco tra Emma e Ludovico cominciò a delinearsi in tutta la sua esplosiva assurdità proprio perché per un’infelice battuta di Ludovico, a proposito del fatto che l’omicidio lo avrebbe commesso anche se fosse stato solo uno di quei due balordi perché con quello che aveva in corpo avrebbe potuto uccidere sia quella vittima che una folla intera, sopraggiunse un altro incomprensibile momento di ilarità - fu un banco di prova decisivo per la coppia ospite. Mentre Paolo era visibilmente sconcertato, in procinto di rivelare cosa gli aveva detto Ludovico l’attimo prima, Emma paragonò quel genere di crimine ad un eventuale caso di legittima difesa in cui un insospettabile hacker, che poteva benissimo essere Paolo, avrebbe dovuto scegliere tra l’essere ucciso da una spia dei servizi segreti che gli stava puntando contro una pistola per aver scoperto che lavorava per un altro governo, oppure di dare l’ordine tramite un auricolare conficcato all’interno del suo canale uditivo di fare uccidere la stessa spia da un cecchino appostato dirimpetto all’abitazione dove si trovavano in quel momento. L’istintiva reazione di Paolo però non fu quella di rispondere alla domanda di Emma, ma ovviamente quella di dire cosa gli aveva detto Ludovico. A quel punto Emma e Ludovico scoppiarono a ridere senza più ritegno e talmente forte che Greta e Paolo furono costretti ad andarsene. Probabilmente il mattino dopo, sempre che si fossero scambiati i rispettivi numeri e sempre che Paolo si fosse degnato di chiedere spiegazioni, Ludovico si sarebbe rimesso ancora a ridere, non tanto perché non avrebbe avuto voglia di spiegargli che la legittima difesa non c’entrava nulla con il macabro delitto e che lui, Paolo, non era che un operatore telefonico, quanto perché, inutile a dirsi, avrebbe avuto voglia di dirgli che si sarebbe candidato alle prossime elezioni amministrative del loro comune di residenza.

    ARIMANE

    La gente non ha più voglia di innamorarsi, di prendere la vita con entusiasmo, soprattutto di pensare al perché si trova qui - questo è quanto di più sconcertante si avverte quando si deve riconoscere l’inutile dall’utile. Ma perché, per riconoscersi, l’utile ha bisogno dell’inutile (e viceversa) e perché dovrebbe essere necessario riconoscere nei meandri più reconditi sia un concetto che la sua relativa dicotomia? Così come lo stolto necessita di qualcuno che gli dica sempre cosa deve fare, anche il saggio in fondo - per opposte ragioni - dimostra la stessa esigenza. L’ipotesi che a qualcuno possa ancora venire in mente di fare delle supposizioni in merito al perché sia utile o meno ripetere le eterne domande - da dove veniamo, cosa facciamo qui, dove andremo - implica e al tempo stesso introduce la motivazione del discernimento, ovvero ci prepara a una prova continua e incessante per stimolare la nostra capacità a comprendere come quando e perché si manifestano i contrari, a seconda della nostra indole e dei nostri difetti o pregi. Ora, come e quando l’indole di un individuo possa cambiare a seconda delle esperienze e delle vicissitudini è un dato oggettivamente risaputo, e perciò irrilevante, ma perché cambia? Se un Kamikaze sapesse che con il suo sacrificio i posteri che appartengono al suo mondo non vivrebbero con più dignità si farebbe saltare in aria lo stesso? E se invece lo stesso individuo venisse a sapere attraverso vie misteriose che l’antesignano del nipponico vento divino fu Gesù di Nazareth, che cosa sarebbe disposto a fare per quei posteri? A partire proprio dal Cristianesimo, l’utilità - se così può definirsi, viste e considerate le conseguenze - dell’immenso sacrificio divino fatto di proposito in remissione dei peccati umani purtroppo è il risultato del vano sforzo di certe minoranze, effimere, che da sempre cercano con ogni mezzo di convertire in fede l’amore e il rispetto reciproco di perenni maggioranze che non credono in nient’ altro che non sia utile ai loro scopi, e che si divertono anche ad esortare i loro simili emarginando i pochi che ancora credono in quei valori. Paradossalmente però - visto che il denominatore comune che indica quei valori è riscontrabile in quasi tutte le religioni - occorre saper attingere l’essenza del Bene da ogni fonte di conoscenza insita nell’inesauribile scrigno verbale di queste religioni, perché l’utile torni a governare le coscienze. A cosa servirebbe per esempio dire che il culto delle forze naturali e dell’origine divina dell’Imperatore sia il principio fondante dello scintoismo quando, qualora dovessero chiedercelo, non ci verrebbe più in mente? Chi può dire di essere chi pensa di essere nella realtà universale, e quale livello di conoscenza dovrebbe avere l’uomo per cercare di sopravvivere alla propria inevitabile - e forse inutile, considerando l’aspetto demoniaco che la domanda implica - autodistruzione? L’eterna lotta tra il Bene e il Male non sono forse frutto della nostra stessa potenza creatrice che demonizza il primo, in quanto lo reputa un valore comune, e perciò monotono, mentre idolatra il secondo perché lo vede come la forza soprannaturale più straordinaria? In realtà l’aspetto più complesso e controverso che esiste nel riconoscere il Bene dal Male, così come l’utile dall’inutile, è l’apparenza, quell’apparenza così intrisa di ambiguità che ci costringe a propendere per la guerra quando siamo in pace e ad anelare la pace quando siamo in guerra. Come tutti sanno dunque, o per meglio dire, come tutti quelli che adorano sapere - forse perché questi ultimi preferirebbero evitare di imbattersi in incontri ravvicinati del quarto tipo, nel senso che il grado di “conoscenze” assimilate da individui che appartengono a una categoria di persone dette di quarto tipo, per non dire altro, sono “senza dubbio superiori” rispetto al grado di conoscenza che potrebbe avere un individuo che vive in perenne stato di ibernazione a diecimila anni luce di distanza dalla nostra galassia teletrasportandosi ovunque desideri andare - nello zoroastrismo Arimane è il Male, il sommo diabolico sovrano di tutte le cose visibili e invisibili, colui il quale, o la quale, o anche cui - a seconda della sua volontà di manifestarsi - governa indiscriminatamente la materia e tutti i relativi esseri materiali. Ora, se è vero che Zoroastro, o Zarathustra, era un essere preesistente alla nascita materiale, che fu inviato da Ahura Mazda, che rappresenta il Bene, per predicare agli uomini la Vera religione, perché Arimane - che in fondo è venuto dopo - dovrebbe avere l’esclusiva sul dominio in generale? Oltretutto poi su una materia che non è la sua, come quella dello spirito! A quale scopo e con quale pretesa osa sottomettere i seguaci del materialismo - obbligandoli a venerarlo e a massacrare vittime innocenti in suo nome, grazie anche a raccomandazioni poco ortodosse - sapendo di non poterli ospitare tutti a causa di un inevitabile sovraffollamento? Per riconoscere Arimane da Ahura Mazda, o Cristo da Satana, bisognerebbe cercare di non dimenticarsi mai di di guardare dentro agli occhi qualcuno in continuazione, ad ogni sacro o profano istante che ci è stato concesso, per capire fino a che punto sarebbe disposto a non tradire il suo libero arbitrio nel caso sapesse che il passaggio dimensionale comporterebbe o la libertà o la dannazione eterna - a prescindere dalla vera o falsa concezione dell’io che questo qualcuno pensa di avere, sia nell’attraversare giorno per giorno le continue gioie e avversità tipiche della nostra condizione, che nel varcare una soglia abissale come quella ultraterrena. Se un prete ligio e devoto ai suoi credi a un certo punto della sua vita venisse a sapere, dalla stessa voce che lo ha convinto a prendere i voti, che ad aspettarlo dall’altra parte non ci sarà che il nulla assoluto - ossia la dannazione - o crederebbe a una delle innumerevoli prove, e a volte burle, che il suo dio padre onnipotente è solito fare con i suoi figli prediletti - l’esempio di Abramo con Isacco è la dimostrazione più lampante - oppure si darebbe al libertinaggio e alla dissolutezza più sfrenata, ed è per questo che occorre vigilare senza sosta, sia nei confronti di tali soggetti e sia nei confronti di altri, come ad esempio un assassino di professione, il quale, se a un certo punto della sua vita passata a uccidere - per far prendere tutt’altro genere di voti a qualcun altro - venisse a sapere dal suo più diretto Dio superiore, convertitosi improvvisamente a condurre una vita religiosa per cercare in qualche modo di redimersi dai peccati commessi, che all’altro mondo potrà esserci una vera libertà, incondizionata, o continuerebbe a vivere facendo sempre l’assassino, ma iscritto nel libro paga di un altro Dio superiore, oppure potrebbe anche iniziare a pensare di fare altro.

    LA DIFFERENZA

    Da che mondo è mondo la consapevolezza dell’utilità di un progetto deve essere proporzionata al reale ed effettivo bisogno che gli altri hanno su ciò che viene prodotto da quel progetto, indipendentemente dal genere. A proposito di questo infatti non a caso esiste una differenza sostanziale tra una reale e una fittizia necessità che gli altri attribuiscono ad un prodotto - che in termini di tempo corrisponde all’incirca allo stesso periodo di questa consapevolezza, ma che per ragioni inspiegabili viene misteriosamente rivelata come speculare. Per capire meglio questa differenza conviene fare un esempio : quando qualcuno espone e presenta un nuovo prodotto, putacaso un prodotto tecnologico, di fronte a milioni e milioni di potenziali utenti dimostrando di essere l’unico forse a non farne uso, a nessuno verrebbe in mente che è in atto una vera speculazione. Inoltre - se si tiene anche conto che l’effettivo bisogno che quel prodotto emana è reale, senza nemmeno doversi fare scrupoli se possa piacere o meno - il mistero si infittisce, diventa sempre più intrigante. Di conseguenza come si potrebbe fare per evitare di porsi una domanda quale “ma perché, ad oggi, c’è ancora questa differenza?” Intanto va detto che l’elenco dei bisogni reali ed effettivi della collettività è infinito, per fortuna, e che perciò il mercato globale dei prodotti in genere non corre alcun rischio. Per rispondere alla domanda invece diventa necessario capire prima perché bisognerebbe porsela. Primo, questa differenza non è determinante, sia sotto l’aspetto socioeconomico che sotto l’aspetto politico : il fatto che senza più speculazioni il pianeta in cui viviamo tornerebbe ad essere più sano e perfino più decente è del tutto opinabile, e secondo, se ad oggi c’è ancora una differenza così assurda è perché - senza voler descrivere la fecondità come una condizione ideale per le mogli degli speculatori - sono ancora troppo poche quelle che intendono metter su famiglia. Paradossalmente quindi, da quando l’ironia è diventata una cosa seria, proprio per evitare di cadere nella banalità di domande retoriche, l’argomento non viene approfondito con la sufficiente attenzione. Ora, che le cose nel tempo siano state definite utili perché migliorano la nostra condizione è inutile dirlo, in quanto è risaputo, oppure perché, invece di pensare a politiche strategiche in grado di salvaguardare la nostra specie attraverso piani straordinari di ridistribuzione economica si continuino a sperperare i contributi pubblici per finanziare progetti insensati, è altrettanto inutile chiederselo, così come del resto sarebbe anche inutile evocare il pensiero di grandi uomini che hanno radicalmente cambiato il corso della storia dell’umanità per cercare di alzare la soglia di attenzione in merito al perché c’è ancora questa differenza. Tuttavia, per offrire una risposta adeguata alla comune aspettativa, nonostante l’inutile continui imperterrito la sua inesorabile marcia verso quel circolo vizioso che noi tutti conosciamo e a cui tutti apparteniamo in qualche modo, ovvero l’eterno ritorno dell’identico, l’utile, pur essendo qualcosa di effimero, possiede ancora quella peculiarità che da sola basta a colmare qualsiasi lacuna inerente al noto circolo vizioso : ovvero si rigenera, diventa nuovo ogni volta che smette di servire, per servire sotto una nuova luce, per far si che altri possano godere di quella luce in buona sostanza. Va da sé che questa differenza resti, che rimanga un caposaldo nella comprensione del discernimento dei contrari in questione. Qualora non ci fosse più, vale a dire nella remota ipotesi in cui dovesse scomparire a causa di una comprensibile evoluzione, cesserebbe di esistere anche la nostra specie. Il limitare l’abuso di sempre più nuove e sofisticate tecnologie infatti - che ci consentirebbero di conquistare altri pianeti, di andare a vivere su altri pianeti - non significa impedire alla ricerca spaziale di beneficiare dei fondi necessari stanziati dai vari governi per raggiungere quello scopo, vuol dire piuttosto cambiare priorità favorendo l’evolversi di tutto ciò che già esiste. E’ su questo che la politica dovrebbe scommettere - o quanto meno provare a credere.

    PROGRESSO E REGRESSO

    Da un punto di vista etico progredire e regredire nella nostra continua ricerca sulla comprensione del discernimento di questi contrari è qualcosa di essenziale oltre che di complementare, tanto all’utile quanto all’inutile. A volte per salvare delle vite umane - nei casi in cui un paziente è afflitto da gravi disturbi psichici - occorre affidarsi a dei regressi ipnotici, e non soltanto per salvare la sua vita. Altre volte invece bisognerebbe presentare certe pazienti ai già citati luminari dell’A.S.(Accademia del Sorriso) i quali non esiterebbero consigliare a quella certa paziente l’ennesimo intervento di chirurgia estetica, ovviamente dopo quello effettuato dalla stessa in un’altra clinica per aumentare lo spessore delle labbra, e dopo quello effettuato per aumentare il volume del seno soprattutto - che per pura fortuna è scoppiato durante un volo di linea all’interno di un aereo che evidentemente non era pressurizzato a dovere. Non ci vuole certo una scienza per capire che gli interventi di chirurgia plastica dovrebbero limitarsi alla ricostruzione di tessuti che hanno subìto un trattamento post traumatico. Se invece è la stessa società che impone canoni estetici discutibili - per usare un eufemismo, in quanto l’estetica nulla ha a che vedere con simili canoni - allora diventa davvero difficile pensare di usare il regresso per progredire. Quando poi gli argomenti trattati sono di maggior impatto psicologico, come la pena capitale o l’eutanasia, sono subito destinati a diventare oggetto di spettacolarizzazione perché non vengono mai discussi esclusivamente nelle sedi opportune - così come dovrebbero essere trattati - fornendo così quei presupposti necessari ad allontanare l’opinione pubblica dall’avere una sana concezione etica. “Se per progredire s’intende usare il regresso etico necessario a non oltrepassare i limiti imposti dalla condizione umana probabilmente ci salveremo, come specie” direbbe qualche moralista, così come qualche catastrofista potrebbe asserire che ”a forza di imporre veti di carattere etico quei pochi che si salveranno si ritroveranno all’età della pietra”. Sta di fatto che né il catastrofismo né tantomeno il moralismo hanno mai fatto comprendere il valore di un reale progresso o di un reale regresso, per contro, per riuscire ad avere una sana concezione etica non è necessario seguire alcuna dottrina, basta usare del semplice buon senso, in qualsiasi cosa, al solo scopo di orientare sia le scelte che i comportamenti. Se è vero che oggi come oggi la vita della stragrande maggioranza delle persone che compongono questa società vale meno degli accessori di qualche arrivista, vuol dire che siamo di fronte al più grande regresso della storia dell’uomo e che, considerato il tutto - per riuscire a vedere anche soltanto un barlume di quel tanto decantato progresso che ci viene propinato ogni giorno - dovremo cominciare ad annientare coloro che ce lo propinano. La scomparsa dei fatti, l’evidenza cancellata a tutti gli effetti e fatta passare per calunnia, i politici impresentabili oltre che inguardabili inudibili e innominabili indagati per dei reati inconcepibili, l’impotenza del soggetto di fronte le istituzioni, a chi dovrebbe essere utile tutto questo se non a coloro che ce lo propinano, il progresso? Oltretutto a cosa serve ricordarlo se tanto domani è come ieri, se non peggio? Invece no, serve. Eccome. Serve perché è a questo che servono le parole. Poco importa che a dirle sia un papa o un anonimo pacifista, o che siano state dette da altre persone in altre epoche usando altre parole con lo stesso significato, perché il progresso reale di una società si misura dal comportamento dei suoi membri più autorevoli, e perché - qualora l’autorevolezza venisse improvvisamente a mancare - non si dovrebbe perdere un solo istante nel pensare a come sostituirli.

    LA COLPA UNIVERSALE

    L’obiettivo di queste riflessioni ordinarie mira al sapere e al tempo stesso nel far sapere quanto possa essere utile o meno comprendere e riconoscere i contrari menzionati, e, per cercare di raggiungerlo in qualche modo, è necessario che la misura della consapevolezza diventi una parte integrante equa nella divulgazione. Tendenzialmente con il senno di poi è semplice capire e riconoscere gli sbagli che si sono commessi nella vita, le cose che avremmo potuto se non dovuto evitare : l’inutile insomma. Ma erano davvero tutti sbagli? Non ci saremmo almeno per una volta sbagliati nel riconoscere un errore che, sempre con il senno di poi, si è rivelato un vantaggio, una cosa utile? Se il pentirsi servisse in qualche modo a infondere nuovamente fiducia in noi stessi per gli errori passati è innegabile che tutti prima o poi farebbero della contrizione un’immutabile stile di vita, oltre che il primo insegnamento pedagogico da impartire alle future generazioni. Ora, che ognuno di noi sappia quando come dove e perché certi sbagli si rivelino poi vantaggiosi non è un mistero - basta ricostruirsi un percorso empirico, e a seconda del genere di vita che si è scelto di condurre, sebbene di fatto siano le scelte incondizionate a guidare un’esistenza, verranno sempre a galla. Ciò che invece resta in fondo al nostro immenso oceano emotivo è la colpa, ma non quella colpa che ci spinge ad ammettere più che altro a noi stessi di aver commesso degli errori o di essere degli incompetenti nella materia che si sta trattando (anche perché non è contemplata nel nostro misero vocabolario). Per capire e riconoscere tale colpa, nominandola, occorre ricordare che chiunque puntasse il dito contro un colpevole verrebbe a sua volta tacciato come il solo e unico responsabile dei suoi giudizi oltre che delle sue azioni: questa è la colpa universale, che identifica la sua origine sia nell’essere che nel nulla. Cercheremo pertanto di approfondire le ragioni che ci hanno spinto all’analisi di tale origine, portando alla luce in queste riflessioni tanto il relativo utile quanto il relativo inutile. Partendo proprio dall’inutile è indubbio che la decisione di pubblicare dei pensieri che sublimino una colpa così descritta - oltretutto in prima persona plurale, catalogandoli come riflessioni ordinarie per accentuare in qualche modo una pseudo valenza ontologica - non sarebbe di alcun interesse per una moltitudine di persone, e che perciò sarebbe inutile estenderli proprio in ragione del fatto che approderebbero al nulla più assoluto. Il nulla circonda l’essere annullandolo nei suoi attimi di trascendenza più pura, ricordandogli che nulla eravamo e che in fondo nulla saremo. Se l’origine di questa colpa fosse nel nulla, se si trovasse nel nulla, si capirebbe per esempio perché il fatto di farlo sapere ad altri comporti un’identificazione. Lo si capirebbe per deduzione logica, in quanto si vorrebbe “informare” altri circa la possibilità dell’esistenza di una colpa universale. Inoltre - secondo quanto appreso da questa unica e lapidaria descrizione di una colpa definita universale, forse per dare un’idea della sconfinata responsabilità che un’entità divina avrebbe nell’aver realizzato l’universo - perché bisognerebbe ricordare pensieri del genere? E’ implicito che il pensiero - non essendo materiale, non avendo una forma, essendo invisibile insomma - può estendersi soltanto nell’immaginazione, ed è altrettanto logico che la stessa immaginazione, immaginando quella colpa, debba chiedersi in chi e in che cosa oppure per chi e per che cosa dovrebbe identificarsi. Altro punto fondamentale dell’infinita vacuità oltre che dell’inutilità insita nella definizione sta nell’averla immaginata come qualcosa che è sempre esistita, a prescindere dalla cosmogonia o dal cristianesimo che traspare ad ogni parola permeando di ulteriori incomprensioni un significato già di per sé inconsistente, e sconfinando addirittura nell’essere. E’ forse una colpa la nostra esistenza? Rispondere a quest’ ultima domanda - riferendosi perciò all’utile relativo all’analisi dell’origine della suddetta colpa - non vuol dire negare l’esistenza di un nulla, che esiste si in quantità perfino eccessiva, sia nell’universo che negli individui, e che in questo senso ha dato origine alla colpa. Se fosse vero che il nulla potesse condizionare la trascendenza - che va ben oltre ogni cosa oltre che ogni pensiero - non esisterebbe né la colpa, né tantomeno quelli che pensano che non possa o che non debba esserci quella colpa, in quanto nulla, né prima né dopo l’essere fu, o mai sarà. Perché dunque esistono? Perché negano? Perché danno per scontato l’autenticità di dottrine quali l’esistenzialismo o il determinismo? Non è forse anche sottinteso, da prima ancora che il “reale” esistesse oscurando certe verità, che sono le monadi - pur essendo state frutto di pura immaginazione creatrice non che artefice di un costrutto così solido da diventare anch’essa scienza, ed essendo fatte sia della stessa identica forma non che sostanza del pensiero ma non potendosi né dividere né tantomeno estendere in quanto a sé stanti e al tempo stesso presenti in ogni creatura vivente - a comporre l’universo nei suoi vari e complessi ordini e gradi? E quand’anche la sola immaginazione dovesse domandarsi - secondo la logica, ovviamente perché è “prassi di uso comune porsi dei simili interrogativi mentre ci si immagina qualcosa” (perché è appunto “logico”) - in chi o in che cosa questa colpa dovrebbe identificarsi, oppure per chi o per che cosa, potrebbe mai una qualsiasi articolata ed esauriente risposta soddisfare le voglie di ciò che per invidia si è improvvisamente tramutato da sana curiosità in squallida convenienza? Eppure, se questa colpa è nel nulla, ovvero se la causa della sua origine proviene dal nulla, che l’ha originata, come può identificarsi anche nell’essere? Nella Bibbia ebreo cristiana Dio esorta Noè a costruire l’arca per salvare la specie e ricominciare altrove - ma pur sempre su questo mondo - tutto daccapo perché riconosce di aver perso il controllo sugli errori dell’umanità : l’ammissione di colpa è dunque palese, così come è palese che la stessa colpa sia preesistente all’universo creato, perché altrimenti non si spiegherebbe la perdita di questo controllo ; non si spiegherebbe perché se nell’atto di concedere agli uomini la facoltà del libero arbitrio avesse saputo a priori che gli sbagli si sarebbero ripetuti all’infinito e che un suo intervento si sarebbe sempre e comunque dovuto rendere necessario per garantire la sopravvivenza della specie non avrebbe più consentito al demoniaco di perseverare nei suoi folli scopi, per questo l’immensa e illimitata responsabilità divina è anche nell’essere oltre che naturalmente essere nel nulla.

    PIANIFICAZIONE CONDIVISA

    In un ipotetico elenco delle cose utili e di quelle inutili da realizzarsi il prima possibile allo scopo di ottimizzare quel che resta del proprio tempo libero in una giornata feriale - un elenco ideato da aziende con nomi altisonanti (in vari settori, in genere si tratta di multinazionali) che praticano il marketing 3.0 per far si che l’individuo, tra le sue molteplici esigenze, obbedisca anche “spontaneamente” ai suggerimenti contenuti - la cibernetica gioca un ruolo determinante, perché “costringe” a seguire dei consigli che all’apparenza sembrano utili ma che in realtà non lo sono affatto. A differenza dei già più volte citati luminari dell’A.S.(Accademia del Sorriso) questi veri e propri guru della comunicazione globale - che con il loro collaudato organico di plus valenze cibernetiche plasmano e orientano i consumatori verso prodotti sempre più nuovi e “indispensabili” grazie a tali ditte, che li rappresentano - non si limitano a pubblicare volumi e a presiedere conferenze su come dover pilotare la propria mente a fare un buon uso dei servo meccanismi congeniti per compiere le scelte più opportune che porteranno ad una certa realizzazione personale. Il loro compito è quello di pianificare dettagliatamente e senza alcun margine di errore ciò che dovrà essere visto, ascoltato, letto, mangiato, bevuto, indossato, annusato, toccato e forse perfino respirato nell’avvenire più prossimo, per poter così trarre il maggior profitto possibile correndo il rischio di esposizione più basso. Affermare pubblicamente che in un’azienda in cui i maggiori azionisti decidono di adottare dei sistemi di trasparenza inequivocabili nei confronti dei consumatori, o degli utenti, per mascherare in realtà ciò che mai potrebbe essere rivelato - in nessun caso - sapendo inoltre che l’azienda che si rappresenta è concorrenziale e che ci autorizza a fare simili affermazioni, è avvilente, è un po’ come imitare quelle pubblicità che mettono a confronto due forze diametralmente opposte (una delle quali è mille volte più debole) avvalendosi del noto slogan “ti piace vincere facile?”. La comunicazione è uno strumento indispensabile per ogni sorta di strategia, questo però non vuol dire che per convincere sia necessario enfatizzare un concetto di sintesi relativo alle proprietà di ciò che si intende vendere o, paradossalmente, disincentivare i potenziali acquirenti al solo scopo di creare un’inversione di tendenza mirata a rendere più “trasparente” il prodotto in questione. Esistono delle parole chiave che periodicamente - a seconda dei vari e complessi contesti politico economici - tornano in auge apposta per convincere. Già soltanto questo la dice lunga sul livello qualitativo della forza di persuasione. Se poi, questi guru della comunicazione globale, dovessero davvero ideare un simile elenco la situazione non potrebbe che degenerare, non ci resterebbe insomma che obbedire incondizionatamente ad ogni singolo impulso proveniente da un’avveniristica sfera interattiva in grado di controllare addirittura i nostri sogni. Non c’è nulla al mondo di così pesante di chi non accetta l’innovazione e il cambiamento che ne consegue - qualcuno potrebbe liberamente obiettare - così come sarebbe altrettanto grave omettere le cause e gli effetti connessi a quel genere di innovazione, se per innovazione si intendesse omologare con la più deprecabile delle leggerezze la maggior parte delle persone obbligandole a comprare determinati prodotti. Per evitare così di assistere passivamente all’ennesima forma di capitalismo rivisitato, dove i maggiori esponenti vengono definiti dei guru per il semplice fatto che riescono a sottrarre denaro alla collettività con metodi sempre più efficaci rispetto ai semplici apprendisti o adulatori di questa “ignota e nobile vocazione spirituale”, non basta coalizzarsi per cercare in qualche modo di ridistribuire i denari sottratti : non basta perché sia politicamente che economicamente le coalizioni nascono per impedire il formarsi di dittature o di monopoli che normalmente hanno delle scadenze a medio termine, e che perciò, anche nel caso in cui dovessero riuscire nel loro intento, dovrebbero pianificare delle strategie utopistiche per evitare di diventare agli occhi della collettività delle nuove dittature possedendo dei nuovi monopoli a destra e a manca. Per attivarsi con dignità contro questa forma di capitalismo rivisitato occorre perciò creare le condizioni ideali per una pianificazione condivisa del suo disfacimento. Boicottare la vendita di un prodotto o di una serie di prodotti finalizzati a una suddivisione di monopoli - allo scopo di favorire il commercio e il consumo di altri prodotti, non tanto per una preferenza quanto per una necessità - deve basarsi su almeno tre principi fondamentali : primo, ai potenziali acquirenti deve essere sottoposta una visione concreta dei pericoli cui andrebbero incontro. Nel caso per esempio di prodotti inerenti alla realtà aumentata - tenendo conto che fruitori quali militari addestrati a sconfiggere le forze nemiche con l’ausilio di tale tecnica sono costretti all’uso di quei prodotti e che perciò sarebbero in ogni caso esclusi da un eventuale “embargo” - se un ingegnere che progetta edifici dovesse indossare di sua spontanea volontà degli occhiali che gli consentissero di visualizzare la quantità esatta di ferro contenuto in un blocco di cemento armato vorrebbe dire o che gli studi che ha conseguito non hanno titolo oppure che li ha profumatamente pagati, pertanto, qualora i potenziali acquirenti non avessero competenze, oppure dovessero per esempio trarre giovamento dalla perdita, o per meglio dire dall’archiviazione coatta dei dati personali, è opportuno ricordare loro che prima o poi potrebbero facilmente diventare dei probabili capri espiatori, concorrendo al loro stesso fallimento. Secondo, offrire ai potenziali acquirenti sia le condizioni vantaggiose che quelle svantaggiose causate dall’acquisto, indicizzandole e confrontandole con i precedenti stili di vita adottati dagli stessi : sarebbe utile sia nell’evitare di incorrere in ulteriori fraintendimenti accumulando troppe informazioni nel medesimo istante, e sia nel ponderare con saggezza un risparmio garantito, giusto per voler restare in tema di realtà aumentata. In ultimo, diffidare i potenziali acquirenti dalla costrizione audiovisiva di messaggi promozionali, incentivandoli con dei bonus periodici al fine di creare un vero e proprio marchio di fabbrica che si distinguerebbe dagli altri soltanto in ragione del fatto che invece di apparire come stimolante non fosse che un brand deterrente, in e per ogni sua molteplice funzione e/o interazione.

    SUB ALIENA UMBRA LATENTES
    (Quelli che si nascondono all’ombra degli altri)

    Perché l’inutile ripetersi dell’utile compia il suo lento ma inarrestabile percorso sarebbe opportuno che il latino torni ad essere una lingua viva, parlata e usata per scambiarsi informazioni di vario genere, allo scopo di rendere la futura comunicazione globale più autorevole e perfino più interessante da un punto di vista estetico. La maggior parte del clero non potrà che dissentire di fronte a simili assurde profezie, eppure sarebbe opportuno, non soltanto per quei politici che leggono discorsi fatti da altri per dire ciò che mai saprebbero dire, o per quei filosofi che si studiano interi trattati di metafisica o di ontologia prima di partecipare ad un qualsiasi confronto televisivo, per non parlare di quelli che fanno televisione e che ostentano saggezza esclusivamente per far crescere una triste e monotona adunanza catodica mentre nemmeno sarebbero in grado di riconoscere un congiuntivo da un imperfetto, oppure di fare una citazione con cognizione di causa. Sarebbe opportuno anche per noi. Anzi, per noi sarebbe anche istruttivo, ma non perché ormai siamo in balia di un’intolleranza cronica nei confronti delle suddette categorie - talmente in balia che la sola tele presenza o il solo ascolto che proviene dall’immagine odiosa di quella tele presenza ci urta così tanto che se mai dovessimo un giorno trovarceli fisicamente di fronte faremo davvero fatica dal trattenerci a non appoggiare sulle loro “tele” gengive un ferro da stiro rovente - ma più che altro perché non siamo, o per meglio dire, non sono ancora riuscito a capire che è soltanto con l’ammissione dei miei limiti di conoscenza nei confronti di una lingua come il latino che, forse, sarò in grado di impararla. Da parte nostra però possiamo dire di non appartenere a quelli che si nascondono all’ombra degli altri, nonostante siano troppe le lingue che non parliamo e malgrado siano poche le cose che sappiamo. Ora, a onor del Vero, sarebbe fin troppo semplice - considerando oltretutto che sono delle riflessioni - riflettere su quanto appena scritto per elaborare delle teorie filosofiche allo scopo di “dimostrare” al Lettore che invece non è vero che non sappiamo, ma che lo ostentiamo deliberatamente per schernirci in qualche modo risultando così eruditi agli occhi dello stesso : basterebbe studiarsi qualcosa di esoterico, confrontarlo con ciò che si vorrebbe argomentare, redigere una tesi più o meno credibile a proposito dell’”impressione” che si vorrebbe suscitare circa le proprie conoscenze, e sintetizzarla in termini trasversalmente condivisi. Troppo semplice e troppo comodo anche, inutile, in una parola. Ciò che in realtà fa di una riflessione qualcosa per cui sia chiaro a tutti che il pensiero esposto proviene da uno sforzo intellettuale proprio, sta nel saper riconoscere per esempio quando una prosa viene interrotta apposta per meditare su cosa e sul perché si sia scritto il giorno prima sapendo a priori che i concetti scelti per essere spiegati risulterebbero ridondanti senza una necessaria interruzione, oppure quando scorre ininterrottamente come un fiume torrenziale evocando al tempo stesso la gioia e la spensieratezza dei tempi passati, di quando ancora si facevano delle intense letture tutte d’un fiato dei più bei capolavori che ci ha offerto la grande letteratura. Perché dunque la futura comunicazione globale dovrebbe essere più bella e più autorevole se si tornasse a parlare in latino? Innanzi tutto da un punto di vista filologico perché potrebbe tranquillamente coincidere con la definitiva scomparsa di certe ibride mostruosità lessicali - sorte più che altro per venire incontro a diktat informatici, adattandosi alle esigenze di chi, non conoscendo a fondo l’inglese, per lavoro ha dovuto conformarsi come meglio ha potuto (basti pensare allo spanglish o all’anglitaliano) - in quanto, come tutti i fenomeni linguistici transitori, prima o poi conoscerebbero la loro decadenza, per cui, fermo restando che lo studio del latino dovrebbe essere implementato proprio per evitare che sparisca del tutto, non è detto che in un ipotetico scenario post informatico (ovvero quando il linguaggio relativo alla comunicazione informatica globale subirà un inevitabile cambiamento) venga assunto per crittografare informazioni, con un’attenuante degna dei maestri dell’antico diritto romano, vale a dire quella di diventare motivo d’orgoglio per la difesa di certe informazioni, purtroppo però anche con un aggravante molto pericolosa, e cioè quella di discriminare la maggior parte della collettività, che verrebbe tenuta all’oscuro da troppe cose sotto gli occhi di tutti. In ogni caso dipenderebbe sempre da quelli che si nascondono all’ombra degli altri questa ennesima presa per i fondelli nei nostri confronti. Dal punto di vista politico invece probabilmente perché - per tutelarsi da una crescita demografica inarrestabile del popolo cinese, che di certo andrebbe a ricoprire ruoli di rilievo anche e soprattutto nel panorama sociale europeo costringendo paesi come l’Italia o la Spagna a incentivare politiche di sostegno per contrastarne l’ascesa - forse saranno proprio i poteri occulti a decidere che l’establishment del mondo anglosassone debba orientare la collettività verso l’uso di questa lingua arcaica perché, dovendo scegliere come equilibrare le sorti di un’umanità destinata all’epilogo, preferirebbero che tutti la imparassero per poter decifrare e condividere dei documenti statali segreti che proverebbero l’esistenza di un insediamento terrestre su Marte, mentre invece ogni singolo progetto e calcolo effettuato per installare delle basi spaziali su un altro pianeta sarebbero gelosamente custoditi con altri codici, la cui decodificazione a posteriori renderebbe impossibile riconoscerli.

    CERCASI TROGLOPARASSITI, NO PERDITEMPO

    Strada facendo abbiamo avuto modo di assodare che riconoscere l’utile dall’inutile, e viceversa, non è una cosa semplice, anche se a volte sembra proprio il contrario. L’intrattenimento per esempio, in particolare quello riferito alla musica, all’apparenza risulta essere molto semplice : l’atto di cambiare una frequenza radiofonica quando la musica che viene trasmessa non è di nostro gradimento non ha bisogno di alcuna dimostrazione per far vedere che ciò che stavamo ascoltando l’attimo prima era inutile. Le cose però si complicano quando - per una sorta di soglia di auto masochismo che ci impone di resistere almeno cinque secondi all’inevitabile inquinamento acustico - la stessa musica, che di solito si ha la tendenza a detestarla, diventa la colonna sonora esistenziale delle persone a noi più care. La maggior parte dei casi di separazione o di divorzio sono causate da queste divergenze : non a caso di recente è stato anche fondato un comitato per continuare ad avere il diritto di ascoltare quegli indispensabili programmi radiofonici (ormai rarissimi !) dove viene ampiamente spiegata (secondo studi americani, di solito effettuati in Massachusset) l’origine, la causa e ovviamente l’effetto che i tormentoni musicali hanno sulle coppie etero, e non. Nei casi più estremi - vale a dire quando il nulla musicale propinato da certi trogloparassiti che piacciono solo a lui (o a lei) è contrastato dal genio artistico di qualche grande musicista che piace solo a lei (o a lui) - l’uxoricidio è visto ancora come il male minore in grado di alleviare le pene di uno dei due coniugi. Se è vero che nulla esiste al mondo di più universalmente capito e riconosciuto come la musica, allora perché questi trogloparassiti si riprodurrebbero a oltranza e senza sosta, per diventare dei testimoni chiave di qualche matrimonialista alle prime armi ? Da un punto di vista puramente oggettivo combattere per la loro eliminazione è una lotta impari. Forse bisognerebbe partecipare sotto mentite spoglie a qualche talent show e tentare di vincere sbaragliando la concorrenza - probabilmente però si correrebbe un rischio ben più grave : andare al supermercato a fare la spesa dopo un successo del genere aprirebbe scenari davvero inimmaginabili. L’inconfondibile timbro vocale da isterico rincoglionito - indipendentemente dal fatto che appartenga al genere maschile o a quello femminile - la predisposizione congenita al prestarsi all’interpretazione di testi che più che altro andrebbero bene per dei fanciulli che non devono però superare i tre anni al massimo e chiaramente urlati su musiche a dir poco fastidiose, ma soprattutto i tratti somatici, irritanti, tipici di chi è nato e cresciuto con un unico obiettivo - ovvero quello di vivere alle spalle degli altri senza sapere nulla sulla vita pensando di sapere tutto - a grandi linee insomma, questa è la descrizione del trogloparassita tipo. Ora, è vero che il solo fatto di chiedersi a che cosa in realtà dovrebbero servire questi formidabili talenti musicali per qualcuno potrebbe anche voler dire ricordarsi le gesta di qualche folle malintenzionato che all’apice delle sue elucubrazioni spara all’impazzata su una folla inerme e che, senza tanti giri di parole, a questo qualcuno potrebbe anche venir voglia di emulare il folle malintenzionato qualora si trovasse di fronte una folla inerme di soli trogloparassiti, è però anche vero che senza il loro semplice e soprattutto mai banale stare al mondo verrebbero meno un sacco di cose, a partire proprio dal tono canzonatorio e conviviale con cui si è soliti descriverli. In sostanza, immaginarsi un mondo senza trogloparassiti equivarrebbe a ridursi a guardare cinepanettoni fingendo di divertirsi, il che, tutto sommato, significa che a qualcosa servono sul serio.

    RESA INCONDIZIONATA

    Pensare che il pensiero debba trovare un’alternativa a una comunicazione verbale invadente - praticata purtroppo da tutti quelli che avrebbero capito che per esprimere un concetto non si possa fare a meno di usare il triplo delle parole consentite per esempio da chi quel concetto lo ha capito prima ancora che venga espresso, giusto per poter vantarsi di essere dei veri millantatori professionisti, anche perché, quelli che ci credono mentre li guardano e li ascoltano non potranno che imitarli - è come sperare che Pulcinella confidi il suo segreto alla scimmietta ceca sorda e muta. La validità di un’alternativa come questa potrebbe essere paragonata all’efficacia di un’invenzione come quella di spianare il Passo del Turchino per consentire il ricircolo d’aria e far sparire definitivamente la nebbia in Val Padana, propinata da un luminare, anzi, da il Luminare di mezz’età che nei lontanissimi anni ’80 propose questa genialata partecipando a una nota trasmissione televisiva dell’epoca (chi ha una certa età e vive da queste parti non potrebbe non ricordarselo). Ora - fermo restando che la nuova frontiera della comunicazione potrebbe un giorno anche diventare una pantomima globale, pantomima 6.0 putacaso - se è vero che Dio volle apposta che gli uomini si confondessero in quel di Babilonia perché la torre che stavano costruendo stava diventando un po’ troppo alta, perché invece di farli esprimere chi in swahili e chi in aramaico non fece in modo che al solo incrociare dei loro sguardi avrebbero dovuto fargli capire, a gesti, che era lui che doveva pensarci prima e tirare giù una scala? Immaginarsi anche solo per un attimo che gli uomini di allora fossero riusciti a presenziare uno spazio divino indurrebbe a credere che se Dio se ne fosse fatta una ragione avrebbe risparmiato molto tempo per far capire agli uomini di oggi che l’arrendersi al proprio status quo, tutto sommato, non è poi così male. Arrendersi, a volte, fa bene al cuore oltre che all’anima. C’è poi anche un altro aspetto dell’arrendersi che bisogna considerare : ovvero, ricordarsi che il voler essere auto ironici a tutti i costi non serve altro che a diventare ridicoli agli occhi del prossimo. Se uno lo sapesse eviterebbe di fare delle brutte figure, ma visto che nella maggior parte dei casi - come del resto anche in questo - si denota quasi sempre una predisposizione trasversale al non arrendersi, anzi, a continuare una smodata ricerca virtuosa delle parole che indurrebbero a capire che è proprio la “spontaneità” che ci spinge verso l’auto ironia, tanto varrebbe dichiarare apertamente che nel caso questa faccenda dell’auto ironia dovesse diventare una questione di Stato e ognuno di noi, a turno, fosse costretto a dire la sua, si accetterebbero esclusivamente dei suggerimenti mirati a prendere in giro gli altri. Però (c’è sempre un però quando una riflessione totale prende vita e non si dà pace tornando continuamente sulle riflessioni parziali che la compongono fino a che non trova il punto esatto dell’inevitabile contraddizione) se è vero che questa cosa dell’arrendersi a volte fa bene anche al cuore oltre che all’anima, come la mettiamo con il fatto che non bisognerebbe arrendersi al pensiero razionale per non restare confinati in un limite di pura rassegnazione? Se poi (testuale) “questo limite è pura illusione, e l’illusione non è altro che un’atavica espressione del pensiero irrazionale che ha bisogno di trascendere il pensiero stesso per essere riconosciuta” perché, invece di non prendersi troppo sul serio, si è voluto deliberatamente colpire - in tono canzonatorio beninteso - quei poveri ma pur sempre validi esponenti dell’A.S. (Accademia del Sorriso) ? In fondo la loro scuola di pensiero è basata su un calcolo matematico, oltre che sull’uso del pensiero razionale in modo positivo : infatti, non a caso, quando si ricordano di avere un’immagine vincente del proprio io - ma soprattutto quando convincono gli altri, i quali ricoprono ruoli di enorme responsabilità, ad avercela - chissà perché il numero dei perdenti si moltiplica con precisione disarmante. Per correttezza nei loro confronti si sarebbe dovuto almeno avvisarli circa quest’infame pratica allusiva di classificarli come se fossero degli inetti, come se dalla responsabilità delle loro azioni dovessero dipendere le sorti dell’umanità ! Bastava inviare un s.m.s. o una e. mail con su scritto “guardate che non è che ce l’abbiamo con voi, è soltanto che con qualcuno dovevamo pur prendercela” e finiva tutto lì, anche perché loro sarebbero senz’altro stati capaci, se soltanto lo avessero voluto, di dimostrare con mille e più tesi che il pensiero irrazionale è pericoloso e che fa male alla salute. Invece no, invece di arrendersi all’evidenza della loro indiscussa superiorità intellettuale, si è voluto infierire, rigirare il coltello nella piaga a scapito della nostra stessa incolumità, non facendo altro che favorire l’espandersi del loro inequivocabile pensiero.

    L’AMORE INTERPRETATO

    Quando la disillusione si confronta con l’illusione trionfa, senza mezzi termini, ma l’attimo in cui deve fare i conti con le potenzialità espresse dalla più ingannevole delle condizioni è destinata a soccombere : l’amore ne è la prova inconfutabile, che va sempre al di là di certi aforismi. Poter parlare d’amore, così, in assenza della persona amata ma di fronte a tutte (e a tutti) le ipotetiche amanti immaginarie, in un certo senso ispira fiducia, è un po’ come se la scelta dell’argomento potesse realizzare gli obiettivi preposti in queste riflessioni - ovvero comprendere e saper riconoscere dei contrari menzionati fino alla nausea. Intanto è utile ricordare che è solo quando si comincia a detestare la propria immagine, a provare cioè nausea verso se stessi che si capisce - anche se in maniera ancora marginale - qualcosa sull’amore. Si capisce perché risulta chiaro come la luce del sole che senza l’amore di qualcuno che ci sta vicino potremo avere anche la faccia più bella del mondo, ma che in fondo a nessuno piacerà se al nostro fianco non ci sarà anima viva a dimostrare che siamo capaci di amare. Ricordare questo fa bene semplicemente perché in un rapporto sentimentale la coscienza - a differenza della percezione - nella maggior parte dei casi tende a valorizzare soltanto comportamenti esemplari, mentre invece, per tutte quelle volte in cui viene meno l’autocontrollo, generando l’invettiva, è l’oblio a farla da padrone. In amore conta poco la coscienza, per non parlare dell’auto coscienza, di hegeliana memoria : il giorno stesso in cui a qualcuno dovesse venire in mente di stilare un rapporto fenomenologico sulle emozioni provocate dall’amore, ciao Nineta! (“ciao Nineta” è una vecchia espressione piemontese, usata come una sorta di interiezione per dire che in fondo se qualcuno facesse quella determinata cosa in quel determinato momento tutto andrebbe perduto) Ciò che conta è la percezione, percezione intesa come contenitore di sensazioni, in quanto conterebbe davvero poco se fosse intesa solo come referente della coscienza stessa. Tanto per cominciare la prima cosa da guardare in un contenitore del genere è la capienza. Più il contenitore è grande e più ovviamente c’è spazio per riuscire a contenere le sensazioni più diverse d’amore. I bambini per esempio - non tutti, è chiaro - riescono meglio di chiunque altro a quantificare l’amore che provano per i loro cari tendendo entrambe le braccia fino al limite dell’estensione per qualche secondo a occhi chiusi, e questo la dice lunga su come l’infinito possa essere contenuto tra due arti superiori la cui lunghezza, sommata, non supera i novanta centimetri. Avere la sensazione di possedere un immenso contenitore percettivo, capace di protrarre il più a lungo possibile una virtù fin troppo effimera per essere considerata virtù, quale l’empatia, può senza dubbio causare dei seri problemi (di ordine economico soprattutto) all’esistenza di un individuo, ma al tempo stesso è in grado di svelare allo stesso individuo il segreto della ricchezza più grande che esiste in Natura. L’amore, per essere amore, deve essere interpretato in ogni suo angelico o demoniaco manifestarsi. Ora, se un uomo avesse questa sensazione, e fosse venuto a conoscenza di una rivelazione ultra terrena - che gli consentisse di avere percezioni fuori dal comune, come comporre dei versi poetici e imprimerseli nella memoria senza aver bisogno di scriverli, oppure come comunicare telepaticamente con un altro essere del suo stesso livello spirituale - come si comporterebbe nei confronti di uno psicopatico, il quale, oltre ad avergli barbaramente ucciso la moglie e il suo unico figlio, gli avesse anche “confidato” che lo avrebbe fatto soltanto per vedere “dall’alto della sua strafottenza” la sua reazione? Dovesse mai riuscire a perdonarlo riuscirebbe ancora a guardarsi allo specchio? E poi a chi e a cosa e soprattutto per quanto tempo servirebbe l’amore/perdono in un caso simile (così come del resto in altri innumerevoli svariati casi) ? Innanzi tutto - ovvero sia prima di qualsiasi riflessione indotta dalla complessità di una simile domanda - va detto che la parte migliore in un uomo può trovarsi esclusivamente nell’individuo il quale, costretto suo malgrado a subire dolori di ogni sorta e grado riesca a non vendicarsi causando altro dolore ad altri individui. Questo andava detto proprio perché la pura e semplice vendetta è inutile, perché serve soltanto a soddisfare un istinto. Quando però si tratta di un istinto primordiale - o per meglio dire quando il dolore subito è stato provocato dal Male - il Male che si è fatto e che continuerà a farsi uomo fino al fatidico momento in cui il ritorno alle origini lo condurrà dove non potrà nuocere che a se stesso - bisogna farsi coraggio ed eliminarlo senza alcun ripensamento. Che cos’è che fa la differenza tra un istinto e un istinto primordiale? Il fatto di credere di essere onnipotenti o di somigliare in qualche modo a delle divinità, nonostante la consapevolezza di appartenere come tutti i comuni mortali a un genere in via d’estinzione, contribuisce al saper distinguere l’obbedienza imposta dai suddetti istinti, per esempio. Paradossalmente dunque, uccidere certi individui aiuta a migliorare la società, direbbe un prevedibile avvocato del diavolo in tono provocatorio - e forse si riuscirebbe finalmente a capire perché c’è così tanto bisogno d’amore! La triste realtà invece è che non ci si sopporta più. L’intolleranza è arrivata a un livello tale che ognuno di noi, a modo suo, è responsabile del fallimento dei rapporti interpersonali, e che proprio per questa apparente semplice ragione il Male è entrato di diritto e con un certo impeto anche nel quotidiano. Il problema è che non esistono rimedi, o meglio, esisterebbero, soltanto che come al solito - e cioè quando problemi analoghi diventano irrisolvibili a causa di troppa gente che pensa di avere delle soluzioni - è una questione di maggioranza. In un ipotetico appello rivolto a tutte quelle persone che hanno buon senso e che sanno di avere l’obbligo di far riconoscere l’inutile dall’utile, e viceversa, a tutte quelle persone che non ce l’hanno, specie in ambito familiare, la speranza che un giorno il Bene possa recuperare il terreno perduto sul Male è reale, concreta, proprio perché in fondo, ancora una volta paradossalmente, quando i pensieri della minoranza vengono emulati dalla maggioranza - vale a dire quando quelli che rappresentano la maggior parte della maggioranza, sapendo di essere prossimi al trapasso, cercano con tutte le loro forze quel perdono/amore che mai in vita loro sarebbero stati capaci di dare - avviene quasi sempre questa logica metamorfosi. L’amore è tutto, chiunque lo sa. A questo mondo è impossibile che esistano ancora persone che non lo sappiano, visto che al limite esistono persone che fingono di non saperlo : di solito o per evitare di affrontare l’argomento - il più delle volte ritenuto inconcludente - oppure per limitarsi a dire se e quanto possa o meno essere utile tollerarlo nella vita di tutti i giorni - il che significherebbe prendere in giro se stessi, prima che gli altri. A proposito degli altri - per quanto concerne l’orientamento sessuale - in primo luogo è necessario dire che la regolamentazione dei diritti civili che ogni singola coppia dovrebbe avere deve essere equiparata, se non altro per una questione di pari opportunità - senza voler fare alcuna digressione politica - e in secondo luogo che bisogna una volta per tutte darsi da fare tutti insieme per far passare come decreto una legge che stabilisca senza tanti commi che avere dei pregiudizi è reato ! Si potrebbe altresì aggiungere che per semplificare questa fattibile proposta - quella del reato di pregiudizio - basterebbe convincere tutti i parlamentari sul fatto che nessuno li ha veramente, ma sarebbe come approvare l’abolizione dello stesso Parlamento dopo una mozione di sfiducia sbrigativa e nella fattispecie non pilotata. Trionferebbe l’amore/politico in buona sostanza. Per comprendere a fondo l’amore dunque bisognerebbe interpretarlo, come se si dovesse interpretare la fenice mentre sta per risorgere sapendo che si accoppierà ancora una volta con il drago ? Bisognerebbe crederci insomma ? Vero è che le interpretazioni dell’amore sono imprevedibili e infinite, eppure in fondo non sono che stati d’animo, ragioni di vita che - indipendentemente dalle abitudini più diverse - possono realmente influire sull’utilità o sull’inutilità dell’essere felici.