“L’OSSERVATORE SPIATO”
RIVISTA OCCASIONALE IN RETE
Pigri per forza
A nemmeno vent’anni dalla creazione (ad opera di un giapponese) delle emoji – che sono entrate di diritto nella comunicazione digitale, più che altro per l’innumerevole scambio di messaggi che giorno dopo giorno vengono inviati e ricevuti – e considerato che l’evoluzione delle stesse ha portato ad avere perfino un alfabeto (tant’è che qualcun ha già letto addirittura Moby Dick, tramite appunto l’uso delle popolari faccette) quali effetti collaterali dovrà subire la Rete e il linguaggio degli internauti nel caso le (o gli ?) emoji diventassero una vera e propria lingua nonostante manchino, di fondo, di una struttura grammaticale, che in una normale lingua scritta e parlata correttamente viene in pratica usata di continuo ?Posto che l’interfacciarsi rimanga ancora – per fortuna, per ora, ma per quanto ? – una delle prerogative umane più trasversalmente condivise, il rischio di un analfabetismo globale c’è ed è anche piuttosto pericoloso, ma, come sempre e come in tutte le cose, è opportuno ricordare che tutto dipenderà dall’uso, o meglio, da un accurato proposito di voler evitare a tutti i costi l’abuso di certe forme di comunicazione. Volendo però immaginare un mondo dove sarà la parola a diventare obsoleta e in cui, per esempio, chi avrà il compito di controllare gli algoritmi di un’intelligenza artificiale in grado di rilevare gli errori di carattere (faccette tristi o sorridenti) causati proprio da altre intelligenze artificiali capaci di ricreare alla perfezione un articolo politico di un giornale come il Guardian o il Washington Post semplicemente “ripescandolo” dal vecchio inglese scritto e parlato poniamo settant’anni prima, avrà anche l’onore oltre che il potere di decretare quali saranno le fake news e quali no, non si potrà fare a meno di pensare, sempre per esempio, che la libertà d’espressione diventerà di riflesso matematica – nel senso che se tra 70 anni comunicheremo o saremo costretti a farlo soltanto con le faccette, magari tra 140 lo faremo solo più con i numeri, fermo restando che quelli divulgati per contare i manifestanti furiosi scesi in piazza per rivendicare il loro sacrosanto diritto di farsi i selfie anche a quella parte dell’anello sfinterico appena rigonfiata da una imminente evacuazione saranno di certo veri. A differenza del fenomeno emoji – usato dall’esigenza di semplificare e di esprimere attraverso un’espressione del viso il proprio stato d’animo o dissenso oppure consenso per qualsiasi cosa e via discorrendo – il fenomeno selfie è venuto fuori da quell’innato senso di narcisismo che da sempre cattura l’animo umano (si pensi alle fotografie, agli auto ritratti) eppure, per una sorta di paradossale connessione, entrambi i fenomeni comunicano una cosa sola : pigrizia. Analogamente – ma per ragioni diametralmente opposte, quali la crisi occupazionale globale che imperversa ormai da troppi anni – la stessa pigrizia è stata usata (come al solito da una minoranza a buon fine, mentre invece la maggioranza ne ha abusato oltre che approfittarsene) da chi ha fatto del personal branding una sua fonte di reddito, costruendosi abilmente una sua identità virtuale a prescindere dalle reali competenze. Detto questo è lecito oppure no chiedersi che se oggi (inteso come anno di grazia 2019 che stiamo vivendo) c’e qualcuno disposto a sborsare più di 5000 euro per poter bersi tranquillamente un caffè seduto in compagnia di Chiara Ferragni, domani (inteso come anno di grazia 2089 che vivremo) ci sarà qualcun altro disposto a pagare diecimila volte la stessa somma solo perché l’influencer di turno non faccia troppa fatica a degnarlo di uno sguardo battendo oltremodo le sue lunghe ciglia da accalappia geni ?