Tototermini
11 Gennaio 2017
Interdit de me gronder
25 Gennaio 2017
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Un racconto

”L’OSSERVATORE SPIATO”
RIVISTA OCCASIONALE IN RETE

Un racconto

“C’era questa cosa della supremazia intellettuale – cosa che a me,
già soltanto per una questione di antagonismo verbale gratuito mi
ha sempre dato sui nervi (figuriamoci poi se avessi dovuto spiegare
davanti a una commissione di letterati che questa cosa, così come
ora te la sto raccontando a te, mi era venuta in mente perchè volevo
iniziare un racconto ispirandomi a “La cattedrale” di Carver …
come minimo mi avrebbero riso in faccia) – ad ogni modo era quello
che mi ero prefissato, e di questo avrei dovuto parlare quel giorno.”
Così esordì Giuseppe Verdi nell’elencare al sottoscritto i passaggi –
ma soprattutto ciò che considerava come genesi – del suo “ambito”
progetto. Inutile dire che Giuseppe Verdi è un nome che potrebbe
essere sia vero che falso, o meglio, inutile dirlo perchè tutti sanno
a chi apparteneva in passato, comunque sia era (e non perchè è
passato a miglior vita ma perchè è riuscito per fortuna a fare altro)
un giovane disoccupato, italiano, ci tengo a sottolinearlo per una serie
di ragioni che in Italia non occorre ricordare – ragioni che potrebbero
essere benissimo equiparate alla stessa considerazione che tutti
hanno nei confronti di un’omonimia ricercata e priva di spontaneità :
la Mafia, lo Stato e la Corruzione in genere non c’entrano proprio un
bel niente, mi sembra talmente scontato segnalarlo che i tre puntini
di sospensione racchiusi tra parentesi che di solito si usano per fare
immaginare al Lettore il prosieguo di un racconto è come se si
fossero messi da soli. Per uno come Giuseppe Verdi dunque la sola
cosa che conta è riuscire a sbarcare il lunario, che, in fondo, è
diventata la più comune forma di utopia contemporanea.
Ma veniamo al racconto. Dieci anni fa, circa – mi ricordo soltanto che
era in questo periodo perchè faceva ancora molto freddo – a Giuseppe
Verdi venne in mente di iniziare a scrivere un libro aperto, in cui tutti
avrebbero potuto entrarci continuando la narrazione anche dopo la
sua morte. Questo libro avrebbe dovuto parlare esclusivamente di
sogni raccontati non appena il ricordo emergesse dai meandri della
psiche. Non erano ammesse né versioni romanzate dei sogni stessi,
né visioni escatologiche o distopiche, né tanto meno patetiche
biografie, soltanto la descrizione di ciò che si vedeva quando si era
immersi nel sonno più profondo. Era molto geloso oltre che orgoglioso
del suo – a suo modo di dire “ambito” progetto, tanto da non farne
parola con nessuno, anzi, con il passare del tempo forse in lui si stava
cominciando a radicare la convinzione che meno persone incontrava
e meglio si sentiva, in quanto poteva donare tutto se stesso alla
creazione di quel libro senza essere costretto a venire meno al suo
assurdo principio di non voler subire alcun condizionamento che
provenisse da una qualsiasi interazione umana – almeno, questo era
sembrato a me quando lo incontrai per la prima volta in un caffè del
centro. A proposito, io mi chiamo Altero Boniscontri e sono un editore.
Non so ancora per quanto, visti i tempi in cui viviamo oggi, ad ogni
modo fino ad ora – fermo restando che anche noi nel nostro piccolo
abbiamo contribuito a sviluppare quella consapevolezza di essere
diventati dei veri e propri bancomat per i nostri chiamiamoli
inquilini di Palazzo, per non dire altro, a prescindere dall’attività
svolta – non mi era mai successo di rivalutare l’opera di qualcuno
che parlava di qualcosa che a tutti i costi doveva fare nella vita come
se gli altri, e non lui, dovessero ambire a quel progetto. Quando gli
chiesi perchè invece di ambizioso si ostinava a ribadire “ambito”
mi rispose che siccome di ambizioni non ne aveva e che non voleva
nemmeno sentirne parlare visto che comunque gli bastava voler
rivoluzionare il mondo della comunicazione, erano gli altri che
avrebbero dovuto interessarsi a lui. Lo conobbi a teatro, una sera
in cui andò in scena il Don Chisciotte, rappresentato per altro in modo
magistrale da un noto attore il quale interpretava sia l’allampanato
cavaliere mancego che il suo fidato scudiero. Eravamo entrambi
seduti in un loggione la cui capienza era limitata a quattro posti
numerati, di cui uno era vuoto e l’altro occupato da mia moglie.
Non appena si rese conto – probabilmente nemmeno aveva letto la
locandina – che l’intera rappresentazione era affidata all’unico
attore in scena si alzò di scatto sbuffando, urtandomi.
Quindi, dopo le debite scuse, iniziò a parlare in tono enfatico del
capolavoro di Cervantes, con affabulazione, sembrava quasi fosse
lo stesso autore – attraverso chissà quali vie – a suggerirgli le
parole. In sintesi finimmo con il trascorrere la serata insieme,
ma senza mia moglie, che l’indomani avrebbe dovuto fare una delle
sue solite levatacce. Entrambi rispettosi riguardo la scelta di non
rivelare al primo incontro ciò che inevitabilmente la curiosità impone
di conoscere – ovvero la professione, indipendentemente
dall’autenticità della stessa o dal ruolo ricoperto – ci perdemmo
vicendevolmente nell’evocare le disavventure (o avventure, dipende
dai punti di vista) del Chishiotte, convenendo sulla sua visione
utopistica e al tempo stesso sull’aspetto paradossalmente più
immortale del suo essere, vale a dire la sua umanità.
Non lo rividi mai più. La notte appena trascorsa però ho sognato
che uno storico contemporaneo, che si occupa ancora sia della vita
che delle opere di Giuseppe Verdi, ha fatto una scoperta
sensazionale portando alla luce uno spartito le cui note furono
create apposta per musicare il Chisciotte e che soltanto grazie alla
sagacia di qualcuno che stava molto vicino al compositore è emerso,
perchè Verdi non voleva fosse reso pubblico – forse perchè in fondo
alla sua anima pensava di non essere all’altezza della sua fama.